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Quel ramo del lago di Monticchio che volge a Mezzogiorno

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lomonaco manzoni


IL LUCANO FRANCESCO LOMONACO AMICO DI UGO FOSCOLO E MAESTRO DI ALESSANDRO MANZONI


di Giovanni Albanese

Fu il frate francescano padre Gabriele Ronzano (pubblicò per l’editore “Il Salice” anche una monografia) a ipotizzare una origine lucana dei “Promessi sposi” manzoniani, il più noto romanzo della letteratura italiana di tutti i tempi. “Quel ramo del lago di Como” che volge a Mezzogiorno sarebbe stato invece il lago piccolo di Monticchio.

Ad avvalorare questa sua tesi mai definitivamente sconfessata e mai confermata alcuni elementi individuati da padre Gabriele (scomparso ormai da alcuni anni) che mise a confronto le due edizioni: il “Fermo e Lucia” e “I promessi sposi”. Innanzitutto il manoscritto originale (del quale parla lo stesso Manzoni nell’introduzione) sarebbe stato raccolto nell’Abazia di Monticchio da Francesco Lomonaco, esule della Repubblica napoletana del 1799 il quale fuggito da Montalbano Jonico passò per il Vulture per raggiungere Pavia e Milano dove si rifugiò.

Qui ebbe tra i suoi allievi proprio il Manzoni al quale consegnò il manoscritto. In questo “scritto” (per la verità mai ritrovato) si raccontava la vicenda di due sposi promessi e della prepotenza del signorotto spagnolo. Storie simili ve ne furono ovunque ma la singolarità sta nel fatto che commendatari dell’Abazia di Monticchio furono i Borromeo di Milano e che i De Leyva (la monaca di Monza si chiamava Geltrude De Leyva) erano feudatari di Atella. Il confronto tra la prima e l’edizione definitiva del romanzo fatto da padre Gabriele individuava due “anomalie”: nel “Fermo e Lucia” Agnese, la madre della promessa sposa nel supplicare la Vergine Maria invocava “Madonna mia del Carmine” (stralciata dall’edizione definitiva).

Padre Cristoforo sempre nel “Fermo e Lucia” veniva fatto trasferire in Sicilia mentre ne “I promessi sposi” il viaggio è più breve, da Milano a Rimini. Qual è la verità? La vera storia dei promessi sposi si sarebbe svolta nell’area del Vulture e non in Lombardia? Gli studiosi di storia della letteratura e in particolare i critici manzoniani non si sono mai occupati di questo “caso” con una ricerca approfondita delle fonti storiografiche, convinti che le “storie” sono tante e che “I promessi sposi” è la summa di vicende vere o inventate messe insieme dal genio narrativo di Alessandro Manzoni. Nella storia della letteratura è importante però ricordare la figura dell’esule lucano.

Con Francesco Lomonaco sfuggito alla repressione borbonica dopo la caduta della Repubblica napoletana del 1799, Ugo Foscolo fu legato da amicizia e consuetudine di vita. Foscolo paragonò l’esule lucano a Diogene nel “Sesto tomo dell’io”, un abbozzo di romanzo autobiografico rimasto purtroppo incompiuto. Scrive il Foscolo nell’”Avvertimento”, una sorta di prefazione in cui è possibile cogliere l’influenza dello scrittore britannico di origine irlandese Laurence Sterne, specificamente nel “Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo”: Il libro che sta fra le mani del candido Lettore è il sesto tomo dell’io, opera annunziata nel paragrafo precedente che n’e’ il proemio universale. Mando innanzi il sesto perché gli antecedenti volumi stanno ancora nel mio calamaio…

Tuttavia, come scrive Mario Scotti nel Dizionario Biografico degli Italiani (volume 49) dell’Enciclopedia Treccani “non pochi o marginali tratti rivelano una chiara impronta vichiana in Foscolo”. Infatti il pensiero del filosofo napoletano Giambattista Vico si diffuse ampiamente in Lombardia nei primi anni dell’800 grazie agli esuli della Repubblica napoletana del 1799 a cominciare proprio da Francesco Lomonaco o Vincenzo Cuoco.

L’anello di congiunzione tra Lomonaco e Foscolo fu una libreria a Milano “alla corsia del Duomo all’angolo dell’Agnello” fondata e diretta da un esule napoletano. Aniello Nobile, tipografo ed editore che nel 1793 aveva fondato il “Giornale letterario di Napoli”, un periodico che si proponeva di pubblicare “poesie patriottiche e amorose, prose eccellenti, commediole in un atto che sferzino i costumi, biografie di uomini illustri, repubblicani martiri della libertà, vicende di tiranni detronizzati e, infine, saggi e riflessioni di libri nuovi” dopo il fallimento della Repubblica napoletana e dopo un breve soggiorno a Marsiglia in Francia aveva raggiunto Milano per aprire una tipografia e un’accorsata libreria assiduamente frequentata dall’emigrazione meridionale. Qui in collaborazione con Francesco Sonzogno pubblicò opere di patrioti come Francesco Mario Pagano, di esuli come Lomonaco e Cuoco, di autori di sentimenti repubblicani come Ugo Foscolo o Vincenzo Monti.

Il Lomonaco deve aver avuto un ascendente particolare sia in Foscolo che in Alessandro Manzoni perché, come afferma Daniela Aronica che cita l’Ottolini “nel 1801 il Foscolo scrisse il sonetto “Il proprio ritratto” su cui ritornò spesso nel corso della sua vita, e che stampò per la prima volta nel 1802. Il Manzoni certo lo dovette conoscere manoscritto, poiché prima che fosse stampato scrisse anch’egli il “Ritratto di se stesso” imitandolo. A convalidare la mia asserzione che i due si conoscessero personalmente nel 1801 sta il fatto che il Foscolo corresse un verso del Manzoni nel sonetto che questi diresse al Lomonaco e che compare stampato con la data del 1802 nel volume delle “Vite degli eccellenti italiani”.

Certo è che il percorso umano e letterario di Niccolò (Ugo) Foscolo che si definiva “un allievo della Rivoluzione” si svolse, sotto l’influenza di Francesco Lomonaco, nel segno di un impegno politico mai sconfessato. La “politica” è la chiave di lettura delle sue opere. Politica che significa partecipazione alla vita pubblica del suo tempo, secondo gli insegnamenti dell’amico Lomonaco…


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