Sab23112024

Last update08:49:55 PM

banner conad 2016    banner arborea corretto  

banner madel 2022

              banner store H24 2023
                                                        
 

 

 

 

Back Sei qui: Home Notizie Cultura Lettera al Beato Giovanni Paolo I. Seconda parte

Lettera al Beato Giovanni Paolo I. Seconda parte

Condividi

papa-luciani--prima-parte

 

Qui la prima parte


Sac Pascquale Pirulli


La prima vita è umana, ancora vegeto-animale; la seconda è umanizzata.ma umanizzata ad una condizione. A condizione che i genitori, percepita appena la presenza del nuovo esserino, lo «chiamino a nascere», lo vogliano, lo riconoscano, intreccino con lui un legame di amore, conferendogli così il «diritto ad esistere». E soggiungono: se però (bruttissimo però) è in vista un motivo, i genitori possono, senza peccato, rifiutare il figlio ed espellerlo. Tutt’al più, ad evitare abusi, perché non si sia troppo facili ad espellere, si dovranno sentire dei medici o dei magistrati prima di decidere.
Ahimè! Caro Goldoni, quelle «due vite» esistono soltanto nella testa di alcuni teologi: fuori delle teste, nel seno della madre, in concreto, c’è una sola vita a lanciare il suo implorante appello ai genitori e alla società. Si suppone che spetti ai genitori, dopo la famosa 12a settimana, creare dei diritti nella creatura. È vero il contrario: è la creatura, fin dall’inizio del suo sviluppo, che pone dei doveri nei genitori.
E oltre la creatura c’è Dio, che ha intimato: «Non ammazzare!». «La vita – ha scritto il Concilio Vaticano II – dev’essere protetta con la massima cura fin dal momento della concezione: l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (GZ, n. 51).
Caro Goldoni, ci sarebbero altri «femminismi» poco delicati da segnalare, ma lasciamo lì. Auguro invece che le donne possano realizzare conquiste nuove, ma giuste ed elevanti, a sviluppo di quanto il Signore ha rivelato circa la vera grandezza della donna.
Un aiuto, caro Goldoni, lo potrebbero recare le vostre commedie, così piene di buon senso, popolate di fanciulle che trepidano in attesa della vita coniugale, di spose che desiderano sì una vita più lieta ed hanno sì dei difetti, ma che sono oneste, attente ai propri doveri e gelose della propria virtù.
Alcune femministe trovano invece tutto questo antiquato e sorpassato, tentando di gabbare come «schiavitù imposte dal maschio» perfino alcune leggi di Dio. Vuol dire che esse stanno scegliendo modelli di vita non cristiani.
Se dovessimo raccomandarle a una santa, questa potrebbe essere Vilgefortis, dal nome strano e dalle vicende più strane ancora.
Nata infatti in Portogallo da genitori pagani e battezzata a loro insaputa, essa – secondo la leggenda – aveva fatto voto di verginità. Promessa da suo padre in matrimonio a un re di Sicilia, ciese ed ottenne dal Signore un miracolo e cioè una folta e orrida barba, che di fatto spuntò sul suo virgineo mento. Le nozze naturalmente caddero; la vergine fu libera dallo sposo, anche se poi martirizzata dal padre.
Il riferimento è senza malizia: scherzosamente si può dire tuttavia che una santa barbuta, liberata da un marito, ci vorrebbe proprio per le femministe, che partono con propositi feroci contro i barbuti uomini.
Dopo «La vedova scaltra», «La donna di garbo», «Le massere», «Le morbidose», «La putta onorata», «Il cavaliere e la dama», «Le femmine puntigliose», «I pettegolezzi delle donne», «La moglie saggia», «La castalda», «La sposa persiana», «Donne de casa soa» e tante altre, «La donna barbuta» darebbe all’immenso quadro femminile goldoniano l’ultimo personaggio!». (Albino Luciani, Illustrissimi, Edizioni Messaggero Padova 1976, pp. 324-333)            
Il tuo segretario in una intervista alla rivista Città Nuova ci informa sul tuo metodo di lavoro: «Ha una ricchissima biblioteca di appunti che rifornisce continuamente con criterio giornalistico: legge e ciò che più lo interessa, se lo trascrive, lo fotocopia o lo ritaglia e lo raccoglie sistematicamente. Ha un archivio di quaderni (di quei quaderni che si usavano una volta, con le righe, la copertina nera e il bordo rosso) e di vecchie agende, in cui gli argomenti annotati sono distribuiti a tema. E quest’archivio non gli serviva soltanto per preparare prediche, discorsi o articoli per giornali. Quando partiva per un viaggio pastorale o per un convegno della CEI e o per il Sinodo dei Vescovi, si portava appresso quei quaderni che riguardano il tema specifico che si sarebbe trattato e che gli sar4ebbedro stati utili per un eventuale intervento. Così in ogni occasione il suo parlare in semplicità era sempre un parlare «scientifico», perché citava libri, studi, documenti con estrema precisione. Anche perché aveva una memoria favolosa: tanto per dire, quando doveva tenere una omelia, prima la preparava scritta, poi andava in S. marco senza la carta e la ripeteva tutta, quasi parola per parola».
Mi permetto di rileggere nel volume «Il magistero di Albino Luciani – Scritti e Discorsi”, l’antologia curata da Alfredo Cattabiani (1979), qualche tuo intervento dell’ultimo anno 1978 che hai trascorso a Venezia e che è state segnato dalla drammatica morte di Aldo Moro e di Paolo VI.
Ecco l’omelia di Capodanno dal titolo: “No alla violenza, sì alla pace “:
« No alla violenza, sì alla pace» è il tema fissato dal papa per l’omelia di oggi. Cerco di svolgerlo nel modo più pratico che m’è possibile.
Per alcuni  la violenza viene tutta e solo dall’alto, provocata dalla «libidine» di coloro, che detengono il «potere» o l’«avere». Violenza farebbero il Governo e la società, perché, tollerando troppe disuguaglianze, attuando troppo adagio la giustizia e le riforme urgenti, non procurando lavoro ai giovani, in pratica opprimono e reprimono. Violenti sarebbero i grandi industriali legati alle multinazionali, perché, da una parte sbarrerebbero la strada alla giusta promozione dei lavoratori, dall’altra si farebbero talora favoreggiatori di guerre grandi e piccole del Terzo Mondo con fabbricazione e vendita di armi.
Riconosciamolo: in qualche caso queste accuse non sono senza fondamento. Scoprire la violenza solo da quella parte è però ingiusto; e così pure il generalizzare. In Italia, qualsiasi Governo deve fare i conti con la Costituzione, che vuole le leggi dibattute successivamente prima in una e poi nell’altra Camera; oggi poi si aggiunge, terza«Camera», la Triplice sindacale. Deve fare i conti anche con le crisi correnti, con la limitatezza delle risorse finanziarie, con le richieste in continuo aumento, con la propria debolezza proveniente dalla fragilità dei consensi.
I grandi industriali hanno delle colpe: non però tutte quelle che qualcuno loro attribuisce; ed anch’essi trovano scuse nelle situazioni difficili, nei rischi, che devono prevedere e correre. Pochi giorni fa, per esempio, Alberto Ronchey deplorava «la prassi, per cui in Italia un’impresa può solo assumere, mai licenziare, non fallire né ridurre il personale, quando i costi sono antieconomici (cit. da «Il nostro tempo>< 25.12-1977, p. 2). Ma concesso anche che ci sia questa violenza universale dall’alto, rispondere ad essa dal basso non con mezzi legali di difesa ma solo con la violenza armata è un grosso errore. «La Chiesa – ha detto di recente il papa – non può accettare la violenza, soprattutto la forza delle armi, incontrollabile quando si scatena, né la morte di chicchessia, come cammino di liberazione, perché sa che la violenza chiama sempre violenza e genera irresistibilmente nuove forme di oppressione e di schiavitù più pesanti di quelle dalle quali pretendeva liberare ( Ev. nuntiandi, 37).
Queste parole del papa si riferiscono alla seconda specie di violenza; quella che muove dal basso, da parte di chi, essendo o credendosi oppresso, di «destra» o «sinistra» che sia, impugna le armi e provvede a sequestri, attentati e uccisioni, dando via al terrorismo. Questi, da noi, oggi non solo è organizzato, con scuole di guerriglia, finanziata mediante sequestri ed altre fonti, ma collegato e gruppi internazionali, anche se si esclude una centrale direzionale unica. La meta, a cui aspirano almeno i cervelli dirigenti del terrorismo, è il rovesciamento delle istituzioni, mediante una futura lotta insurrezionale armata, della quale le violenze attuali sono solo premessa e preparazione.
Il metodo si rivela nuovo e accorto sotto un certo aspetto. I vecchi anarchici assassinavano con pugnale, pistola e bombe re, principi e ministri. Il messo, inviato da Tarquinio il Superbo al figlio Sesto, percosse in giardino i più alti papaveri per indicare la via attraverso cui impadronirsi del potere in Gabii. I terroristi nostrani precedono all’inverso: feriscono o uccidono magistrati medi, giornalisti, dirigenti democristiani di provincia. Calcolatamente: ucciso un ministro, infatti, a tremare di paura, pensano, sarebbero appena una ventina di altri ministri; ucciso un consigliere comunale e un giornalista, tremano migliaia di consiglieri e di giornalisti, con le loro famiglie; il panico viene così più diffuso in larghezza e l’ambiente è preparato meglio.
Sì, l’ambiente. «Il rivoluzionario – ha insegnato Mao-Tse-Tung – è come il pesce, il quale, per vivere ha bisogno dell’acqua». L’acqua cioè l’ambiente necessario, nel nostro caso, è fatto di diffusa paura e irritazione (strategia della tensione) da una parte; dall’altra, viene costituito da una consistente solidarietà di pubblico o almeno dall’assicurata passività di buona parte della gente. Di fatto, dai piccoli gruppi di superpoliticizzati iniziali si sta passando adesso ad alcuni gruppi studenteschi, alle prigioni, a qualche settore di emarginati, a piccole punte di organizzazioni operaie. Ci sono i violenti a tempo pieno e ci sono quelli che vivono la doppia vita: restano fra la gente, facendo gli  «indiani», ma conducendo una propaganda intensa, specie fra i giovani. Il fenomeno è tanto più pericoloso quanto più è presentato – anche a giovani cattolici – come causa santa, benedetta da un Cristo tutto rivoluzione e unico mezzo, ormai, per «voltare pagina», ossia per creare una società completamente giusta senza classi e disuguaglianze.
In questa situazione è sommo il bisogno di un convinto, corale, fattivo «Sì alla pace».
Un Sì convinto. Mi sono sentito dire: «Il terrorismo è solo lotta tra gruppi armati da una parte e i partiti dall’altra; si arrangino loro». È vero il contrario: i partiti tradizionali c’entrano solo come oggetto parziale da colpire: si mira più alto e si pensa al dopo; cadono poi spessissimo vittime innocenti del terrorismo; siamo interessati tutti.
Un Sì corale. Si dice: «Tocca alla polizia, alla magistratura provveder». Giusto, ma ormai siamo così avanti che polizia e magistratura non bastano, se non possono contare sul fronte compatto di tutto il corpo sociale, che aiuti a isolare ogni violento, che dia incoraggiamento a chi tutela l’ordine.
Un Sì fattivo. Non basta, infatti, deplorare la situazione e limitarsi a sterili piagnistei sul Governo debole, su magistratura e polizia in piccola parte inquinate, su stampa disinformante, su partiti e sindacati, ecc. Fare, bisogna. La società vien detta cattiva e disonesta; ebbene cominciamo noi ad esser onesti e contagiamo gli altri con la bontà della vita e diamo un contributo concerto all’avanzamento della giustizia sociale.
Fanno propaganda tra i giovani. Facciamola anche noi; i più, tra essi, sono ancora moralmente sani; d’accordo, essi hanno difficoltà più gravi di quelle che avevamo noi; cerchiamo di capirli meglio e di aiutarli.
I terroristi si gloriano di essere in guerra contro lo Stato; fatti di delinquenza comune li gabellano come atti eroici e politici. A voce e n scritto opponiamo giudizi chiari, coraggiosi, e inequivocabili, chiamando le cose con il loro vero nome.
Pensano alla rivoluzione come sa un gioco breve   e a operazione quasi indolore. Persuadiamo noi stessi e loro che una rivoluzione non resta mai un gioco, ma, una volta scatenata, può sprigionare forze perverse spaventose e non controllabili. Lo dice la storia. In altra sede, mi sono appellato di recente, in materia, alla rivoluzione francese e m’è stato rimproverato: «In quali secoli lei va a pescare motivazioni». Ricordare altre rivoluzioni più recenti, era più facile, ma sapeva troppo di politica. D’altra parte, penso sia giusto sottolineare in un’Italia cattolica gli eccessi della Rivoluzione di una Francia «Figlia primogenita della Chiesa»; rivoluzione cominciata con il canto del Veni Creator, con una solenne dichiarazione di diritti dell’uomo, e con alla testa parecchi uomini intenzionati a moderare, frenare e a impedire ogni eccesso. Ma dove sono invece arrivati?
Il nostro S. Pio X ha beatificato nel 1906 le 16 Carmelitane di Compiègne, le stesse, che Gertrude von Le Forte esaltò nel romanzo L’ultima al patibolo e Georges Bernanos ne Il Dialogo delle Carmelitane. Un di esse ciese spiritosamente al giudice cosa significava l’aggettivo «fanatiche», di cui egli le gratificava, condannandole al patibolo. «Significa – rispose il giudice rivoluzionario – lo sciocco attaccamento alla vostre pratiche religiose». «Oh, sorelle, - esclamò allora la suora – avete sentito, siamo condannate per la nostra religione… Che felicità morire per il nostro Dio!». Portate sulla fatale carretta ai piedi della ghigliottina, esse rinnovarono insieme i loro voti e intonarono il Veni Creatror, il cui canto, fatto più debole man mano che le loro teste cadeva una dopo l’altra, si spense solo con l’ultima di loro.
Pagina sublime. Ma di fronte stanno, pagine bel altrimenti tragiche, altre donne della Rivoluzione francese. Le tricoteuses, per esempio. Le tricoteuses, che, sedute sulla strada scalzettando, ricamando e sferruzzando, insultavano le vittime ammucchiate sulle carrette che andavano al patibolo con parole volgari e applaudivano freneticamente ogni volta che il boia  mostrava loro una testa mozza prima di gettarla nella crusca del paniere. Anche queste donne sono state immortalate. Vedete Le due città di Charles Dickens, specialmente ai tre capitoli, che s’intitolano: «Scalzettando», «Ancora scalzettando», «Finito di Scalzettare». Donna era pure, e della leadership rivoluzionaria, quella Manon Roland, che gridò: «Non abbiamo pane da dare al popolo francese; diamogli almeno dei cadaveri».
Il mio non vuol esser allarmismo, ma richiamo a non prendere alla leggera prole e cose di oggi, che possono condurci domani a situazioni gravissime.
Che il Signore ci assista nell’anno nuovo, ci conceda di viverlo in un società senza sussulti; ci aiuti anche a dire con il cuore, con le parole e con i fatti: No alla violenza, sì alla pace».
Quando il 9 maggio 1978 nella Renault, posteggiata in via Caetani a Roma viene ritrovato il corpo dell’on Aldo Moro, il quotidiano di Venezia Il Gazzettino del 11 maggio 1978 riporta la tua accorata riflessione “Ritrovato il corpo dell0n. Aldo Moro” che rileggiamo.
«Ho incontrato l’onorevole Moro due volte: la prima, il 4 novembre 1966 quando, presidente del Consiglio, egli presiedette alle celebrazioni per i Cento anni delle antiche Ceneda e Serravalle battezzate «Vittorio Veneto» in onore di Vittorio Emanuele II.  La seconda volta, pochi giorni dopo, a Oderzo, quando ambedue ci trovammo sui luoghi devastati dall’alluvione del 1966. Da allora non ho più avuto occasione di incontrarlo. Rimasi, perciò, sorpreso qualche settimana fa nel sentirmi dire dall’onorevole Tina Anselmi: «Lo sa che le sue parole sono state di grande conforto all’on. Moro prima del fatale 16 marzo?». «Quali parole?” - «Quelle che Ella rivolse a me e che io ho avuto occasione di riferire a Moro nei giorni delle laboriose e defatiganti trattative per il nuovo governo».
Ho cercato di ricordare: sì, avevo parlato alla Anselmi, ma si tratta di ben poca cosa: avevo solo fatto rilevare che i vescovi non intendono interferire nella politica spicciola e porre difficoltà ai politici specialmente quando, in situazioni delicate o difficili, essi devono scegliere il minore tra i due mali. Avevo aggiunto un esempio per la verità non troppo calzante. Leone XIII aveva desiderato, a suo tempo, che i deputati cattolici del Zentrum germanico votassero una legge militare proposta da Bismarck: ciò, nella speranza di ottenere la fine della persecuzione contro la Chiesa. I deputati, invece, non se la sentirono di votare; non per questo il papa li biasimò, anzi riconobbe che essi, anche come cattolici, avevano usato del loro diritto.
Dicendo questo all’Anselmi, non pensai minimamente a Moro; se le mie pover parole, riferite, gli hanno dato una stilla di sollievo prima che, poveretto, gli capitasse addosso tutto quel mare di angosce, sono ben contento; però, quasi mi vergogno far menzione di esse, ora che la lunga Via Crucis è tragicamente sboccata in un supplizio barbaro e crudele. conclusosi ormai il martirio di Moro, possiamo solo pregare, affinché il suo sangue, come quello dei martiri antichi, diventi seme, che fa nascere buoni e leali cittadini sul terreno di questa tormentata Italia.
Ho letto sui giornali passati giudizi contrastanti sull’autenticità di quelle lettere pervenute a diversi. siano pur state autentiche, pur scritte senza influsso di psicofarmaci, per me, esse non intaccano né la figura dell’uomo né il nostro dovere di sentire immensa pietà per il doloroso e lungo calvario, che gli hanno fatto salire. Viene in mente il caso analogo del cardinale Mindszenty costretto a confessare ciò che non aveva mai fatto. A chi fosse  tentato di pretendere di più da Moro, Francesco di Sales direbbe: «Noi sappiamo benissimo quel che dovremmo fare posti in situazioni difficili; non sappiamo quello che di fatto faremmo».
Ma il dramma di Moro coinvolge ormai tutti noi: le circostanze in cui si è svolto, le violenze, che l’hanno preceduto e accompagnato, aprono gli occhi s una tremenda realtà, che emergeva da tempo, ma cui pochi prima volevano credere. «L’Italia – sentivo dire – non è un paese da Tupamaros; da noi, in fondo, il popolo resta buono». Ma se un popolo buono lo si gonfia per anni di odio all’acido muriatico? Se giorno su giorno si demoliscono sistematicamente i valori civili e umani, l’autorità dei genitori, dei maestri e la santità della famiglia? Se perfino il Vangelo è violentato e piegato da alcuni ad insegnare la rivoluzione armata? Se false psicologie e ideologie aberranti sfasciano la scuola? Se la stessa economia viene scardinata da una serie di errori commessi sia in alto che in basso? Saltano fori ben altro che Tupamaros!
E poi: Cristo aveva fissato  il filo conduttore di ogni vita personale e sociale ben ordinata: «Cercate prima di tutto il regno di Dio; amatevi l’un l’altro; perdonate; non fate agli altri quello che non vorreste fatto a voi stessi». Noi, invece, abbiamo voluto ignorare quel filo, ci siamo buttati a un permissivismo senza confini, a un consumismo sprecone, alle divisioni interne, alla critica di tutti contro tutto e alla violenza. Questa, cominciata con «armi improprie», bottiglie molotov e sottovalutata, ha preso corpo;  adesso siamo alle armi ver usate con crudeltà cinica e terrificante.
Più di un secolo fa un «figlio del secolo», Alfred De Musset, scriveva: «Ve lo dico io com’è stata: afferrato il Crocifisso, l’abbiamo calpestato e ridotto in polvere. Ma, allora, ci sentimmo infelici, ci oppresse il bisogno di raccogliere quella polvere, di rifare l’immagine del Crocifisso e  di inginocchiarci davanti ad esso». Pare scritto oggi: ridotto in polvere non è Lui: noi siamo i frantumati, costretti a vivere  in mezzo alla paura, alla insicurezza e all’intimidazione. Siamo noi a dover assistere allo spettacolo dello Stato sfidato e beffato da criminali, che pretendono fare di se stessi un altro stato e si autoinvestono di un immaginario, fantomatico potere legislativo, giudiziario ed esecutivo.
E bastasse, ma forsennatamente pretendono che lo Stato vero si metta in ginocchio davanti a loro, si distrugga con le sue proprie mani, trattando alla pari con dei briganti. Essi, inoltre, chiamano se stessi «popolo», mentre il vero popolo non vuole saperne delle loro criminali e aborrite imprese; chiamano «legge» il sovvertimento di ogni legge. Per essi hanno dignità di «processo» i loro efferati crimini e, viceversa, sono declassati a «farsa» i veri processi dello Stato. Tra essi, quelli che sono portati in gabbia, da imputati, pretendono trasformarsi in tribuni; quelli che rimangono in clandestinità, dall’ombra escono a colpire alle spalle ora questo ora quello, tentando di diffondere il panico, di creare spaccature, di innescare un clima di guerra.
A questi turpi giochi bisogna una risposta: rimanere compatti a difesa della libertà, conservare la fiducia nelle istituzioni, isolare coloro che le vogliono distruggere e, soprattutto, vincere il male con la bontà. Sento da più parti deprecare la debolezza del Governo. Giusto, ma cerchiamo di non accrescerla e ricordiamo che di essa siamo responsabili un po’ tutti.
Ricordiamo i tempi, in cui carabinieri e polizia erano chiamati «sgherri di Scelba», derisi, insultati, fino sputacchiati. Noi siamo rimasti a guardare. I giornalisti fanno bene a informare, a suggerire, a fare la «critica positiva». In questi momenti delicati dovrebbero però  ricordare quanto disse Giolitti a un loro collega che l’aveva aspramente attaccato  mentre, nel 1921, egli tentava di comporre il gabinetto in una situazione pressoché disperata. «Con lei – disse Giolitti al giornalista – io sono perfettamente d’accordo e perfettamente in disaccordo: Son d’accordo perché ha scritto tante belle cose. Sono in disaccordo perché, quelle cose, lei solo le scrive; io, invece, purtroppo, le devo anche fare».
Dovremmo pure ricordare che il pericolo del terrorismo, sia pure in gradazione diversa, incombe anche sulla Comunità internazionale. Lo fa capire, tra l’altro, un recentissimo, preoccupato documento dei vescovi tedeschi. «Siamo spaventati – scrivono questi – di che cosa son capaci uomini che vivono tra noi. I terroristi dicono un no radicale a tutte le istituzioni: matrimonio, famiglia, Chiesa, Stato, sospettate di impedire le libertà dei singoli e di asservirli agli interessi degli altri». Si chiedono i vescovi: «Come mai  la nostra natura umana è potuta precipitare in tali abissi?»; tanto più – aggiungono – che i terroristi «vivono in un mondo, dove esistono sia il cristianesimo sia la Chiesa e non pochi di essi hanno avuto una educazione cristiana». E rispondono: « All’inizio c’è sempre la superbia dell’uomo»; poi, «molte ideologie impregnate di marxismo» insegnano che, per raggiunger lo scopo, tutto diventa lecito, «anche la violenza contro le persone i le cose».
Quali i rimedi suggeriti? I politici cerchino di opporsi al consumismo e allo spreco; badino a che siano coltivati tale rispetto per la vita e tale spazio vitale per l’uomo, da determinare un giusto stile politico e dei saggi provvedimenti sociali. La gente poi esca dalla grigia e passiva neutralità. Non è forse fatale la pusillanimità, che non si dichiara per nessun ideale, che non si interessa dei valori supremi, che mantiene le grandi distanze in forma critica e cinica?
Gli intellettuali, i giornalisti ricordino che «ogni loro pensiero, ogni parola è un seme dal quale può nascere un frutto buono o malvagio: quanto viene detto, recitato, scritto, trasmesso non cade in terra di nessuno, ma opera su uomini vivi, permea situazioni di esistenza e decisioni di vita». Le famiglie, soprattutto, dovrebbero «diventare le cellule del rinnovamento sociale» con genitori capaci non solo di amare, ma di guidare con mano amorevolmente ferma i  loro figli. E i credenti, con una preghiera assidua (Gesù ha detto: «pregate senza interruzione», non ha detto «cominciate a pregare»)  invochino l’aiuto di Dio e cerchino di meritarlo con una vita buona. Insomma, contare sì su un governo più efficiente, sull’economia rinsaldata, sulla cultura più sana e più diffusa, ma più ancora sulla riforma interna dell’uomo.
Fu Victor Hugo a scrivere – inneggiando alla scienza – che ogni scuola in più significa una prigione in meno. Venisse oggi, a Roma; visitasse il «covo>< brigatista di via Gradoli, vedesse la Renault rossa di via Caetani. Lì, la scienza trionfa e la scuola, quanto ad applicazione tecnica, si rivela tradotta in pratica perfetta: armi ultimo tipo, razzi fumogeni per far perdere le tracce ai poliziotti inseguitori, contabilità tenuta a regola d’arte, carte geografiche, piante topografiche, disegni, non manca nulla.
 Mancano solo tracce anche minime di pietà umana e di timor di Dio».
Il giorno 12 maggio 1978 tu presiedi la celebrazione per l’omicidio dell’On. Aldo Moro nella Basilica di San Marco e all’omelia denunci il clima di tragedia nazionale.
«Per l’anima dell’on. Moro o già concelebrato con i miei confratelli vescovi del Triveneto poche ore dopo che la sua povera salma era stata portata in Via Caetani da sicari, che al crimine agghiacciante, hanno osato aggiungere le beffa orrenda. Sono contento di pregare di nuovo. La personalità di Moro sia in Italia che fuori è da tutti riconosciuta come emblematica e rappresentativa  non solo di un partito, ma dell’intero Paese. Ricordarla, insieme alla comunità veneziana, che tanto amo e alla quale indegnamente sono stato dato come Pastore, mi sembra un dovere.
Che giornate stiamo vivendo, miei fratelli! Il sequestro del 16 marzo con l’uccisione dei cinque uomini della scorta, gli spavaldi comunicati dei terroristi, le ricerche ansiose  e vane, le nuove uccisioni, gli attentati quasi quotidiani hanno creato un ambiente carico di incognite e costituiscono una sfida alle istituzioni assurda e priva di ogni senso di umanità.
Come non bastasse per Venezia, l’attentato sanguinoso a Il Gazzettino, cinque ore fa c’è stata un’altra tragedia: l’assalto al Banco di S. Marco terminato con la tragica fine di uno degli assalitori.
Leggendo i giornali e vedendo la televisione, si ha l’impressione di trovarci di fronte ad una emozione popolare diffusa e profonda: rare volte s’è vista la stragrande maggioranza del popolo italiano manifestare, come in questi giorni, sdegno, compassione, timori: dal papa, che, dopo aver amaramente  parlato di «una macchia di sangue che disonora il nostro Paese», si appresta a presiedere domani nella sua cattedrale il rito funebre di Moro; dal presidente Leone, che chiama «belve» i carnefici, vi via fino alle buone signore, che portano tributo di fiori e di lacrime alle vittime di via Fani, e ai fanciulli delle scuole.
I partiti, i sindacati, i mezzi di comunicazione sociale si esprimono con discorsi, che sembrano responsabili, sinceri e con manifestazioni di solidarietà sia con le vittime sia con lo Stato. Questo, quanto più è sfidato dai brigatisti e fiancheggiatori, tanto più sembra diventare oggetto di protestato amore da parte delle forze politiche e sociali del Paese, una volta tanto riunite nel timore del comune pericolo.
I politologi cercano le cause della triste situazione. Si parla di collegamenti internazionali, di preparazione accurata, che ha portato a tecniche che superano le possibilità di ogni difesa. Essi lamentano la fragilità delle strutture, pur associate nella generosa dedizione delle forze dell’ordine sposte a rischi e insidie mortali; insinuano che le carceri fomentano talvolta la propaganda del terrorismo e che in qualche caso gli stessi magistrati interpretano le leggi con l’inammissibile parametro di personali tendenze politiche; insistono soprattutto sulle cause sociali: la scuola politicizzata, i giovani disoccupati, l’economia in sfascio.
È l’eziologia dei politologi. Le cause segnalate sono veramente esistenti. Ma non sono le cause più profonde. Come pastore d’anime devo richiamare piuttosto la vostra attenzione sulla demolizione della famiglia con il divorzio, la contraccezione e l’aborto. Il senso del peccato va scomparendo: sembra che esista solo il peccato sociale; per le singole persone tutto viene, invece, detto lecito: si nega un Dio che possa proibire qualcosa al divino uomo, un Dio, cui chiedere umile perdono delle proprie mancanze; aumenta il numero delle coppie giovani, che convivono senza matrimonio né civile né religioso; le piaghe della prostituzione, dell’omosessualità ostentata si diffondono; pure la stampa pornografica e l’suo della droga aumentano, sostenute da mezzi potenti e da torbidi giri di interessi e di affari; dilagano il turpiloquio pubblico e privato, la bestemmia, la derisione di tutto ciò che rispecchia valori di fede religiosa o almeno degni di rispetto e di considerazione.
Miei fratelli, non guariremo dal terrorismo, se con le cause sociali non togliamo anche le cause dell’irreligiosità. Il Vangelo tradotto in pratica non giova solo agli individui, ma all’intera società. Siamo a Venezia. Questa, nella sua lunga storia, si è trovata talvolta di fronte a gravissimi pericoli. In quei momenti Venezia si rivolgeva tutta al Signore, chiedendo perdono e promettendo miglioramento di vita e di costumi. L’iniziativa partiva dal Doge e dal Senato, che incitavano il patriarca a indire preghiere.
Questa volta è il patriarca che chiede. Riforme sociali ardite porteranno certo giovamento; ma più che alla riforma di istituzioni e strutture esterne bisognerà puntare sulla riforma interna dei cuori. Serve, in questi momenti, soprattutto un supplemento di onestà e di generosità, che nessun laboratorio di sociologia e di economia politica è in grado di fabbricare. Serve che ciascuno di noi abbia il coraggio di riconoscere che il cambiamento più urgente si chiama conversione.
Che il Signore ci aiuti e che la tragedia di Moro sia di stimolo e ci richiami tutti a propositi di vita morigerata e cristiana».      
         
7.  La sera del 6 agosto 1978 Paolo VI nel palazzo apostolico di Castel Gandolfo chiude la sua laboriosa giornata nella vigna del Signore e tu il 10 agosto lasci Venezia per partecipare ai solenni funerali e al conclave. Appena un mese prima il 2 luglio 1978, nell’omelia per la festa del papa lo avevi ricordato ai veneziani quale “custode della fede” con queste commosse parole :
«Il cardinale Daniélou ha scritto un libro intitolato Pourquoi l’Eglise?. Vi svolgeva la seguente idea centrale: Cristo ha istituito la sua Chiesa, perché la santità obbligatoria per tutti fosse possibile a tutti con mezzi a portata di tutti. È certo una tesi vera e bella; ma è parziale; essa sembra trascurare il doveroso impegno dei cristiani per la promozione umana. Completa Paolo VI come segue: «Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù  stabile dimora, la Chiesa li spinge anche a contribuire  - ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi – al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L’intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio  di essere loro presente per illuminarli con la luce di Cristo, e adunarli tutti in Lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non  può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l’ardore dell’attesa del suo Signore e del Regno eterno».
Miei fratelli, il Papa è soprattutto maestro e custode della fede. Non stupisca che della fede soprattutto egli si preoccupi. Il 29 giugno, dei suoi 15 anni di pontificato ha detto: «Fidem servavi! Possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito “il santo vero”» (Manzoni).Della fede sia nostra che dei nostri vicini dobbiamo preoccuparci anche noi. Le verità della fede sono, infatti, pilastri cui appoggiare intera la nostra vita cristiana. Se venissero meno i pilastri, la vita intera verrebbe scossa e scompaginata».
Il 10 agosto 1978 ti metti in viaggio per Roma e alla tua sorella  Antonia circa una tua eventuale elezione dici: “Non c’è nessun pericolo per me!” e anzi qualche ora prima di entrare in conclave passi dal meccanico presso il quale è in riparazione la tua macchina e lo solleciti: «Mi raccomando, fate il più presto possibile. Dovrò ritornare a Venezia tra pochi giorni e non saprei come fare a recuperare la vettura se dovessi lasciarla qui…». Tu hai il tuo candidato, che è il cardinale brasiliano Aloisio Loscheider, e nel conclave si confrontano due schieramenti: quello conservatore che ha come candidato il card. Giuseppe Siri e il “grande centro montiniano” che punta sui cardinali Sergio Pignedoli e Sebastiano Baggio. A proporre la tua candidatura pare sia stato il card. Giovanni Benelli e così dopo appena quattro votazioni con 101 voti su 111 sei eletto papa e il cardinale protodiacono Pericle Felici, dopo una fumata abbastanza incerta, alle 19,18 del 26 agosto 1978, dalla loggia della basilica vaticana, annuncia che il card. Albino Luciani è il nuovo papa con il nome di  Giovanni Paolo I.
Quanto mai simpatico è l’incidente tipografico del giornale L’Osservatore Romano che nella prima edizione straordinaria scrive “Albinum Luciani qui sibi nominem imposuit Ioannem Paulum I” e poi precipitosamente corregge “… qui sibi nomen imposuit”, perché il termine “nomen” è neutro.
Ai cardinali che ti hanno eletto papa tu dici con umile sincerità: “Dio vi perdoni quello che avete fatto!” e, avviandoti verso la loggia, ripeti “Tempestas magna est super me!” Vorresti parlare alla folla che ti applaude, ma ubbidisci al rigido cerimoniale, cui sei richiamato e ti imiti a impartire la prima benedizione Urbi et Orbi.
Così ha inizio il tuo breve pontificato “profetico” perché  è stato luce di umiltà, di semplicità e di amore racchiuso nel tuo sorriso sincero.
Il giorno dopo rivolgi al mondo il tuo radiomessaggio «Urbi et Orbi», nel quale riveli il tuo sgomento dinanzi al “tremendo ministero” cui sei stato chiamato, la tua confidenza nell’aiuto di Cristo che ti tende la mano come a Pietro sulle onde del mare di Galilea, la grande missione universale della Chiesa, e alcune linee di programma sulla linea di papa Giovanni XXIII con il saluto finale a tutte le categorie (cardinali, vescovi, collaboratori, sacerdoti e fedeli della diocesi di Roma, le diocesi di Belluno e di Venezia, religiosi e religiose, missionari, Azione cattolica e movimenti, i giovani, le famiglie, ammalati, prigionieri, esuli e perseguitati, disoccupati, ecc. ) con la richiesta di pregare perché al mondo siano assicurate «sempre maggiore giustizia e una più stabile pace».   
Mi permetto di ascoltarti in qualche passaggio:                         
« Venerabili Fratelli!
Diletti Figli e Figlie dell’intero orbe cattolico!
Chiamati dalla misteriosa e paterna bontà di Dio alla gravissima responsabilità del Supremo Pontificato, inviamo a voi i Nostro saluto; e subito lo estendiamo a tutti gli uomini del mondo, che in questo momenti ci ascoltano, e nei quali, secondo gli insegnamenti del Vangelo, amiamo vedere unicamente degli amici, dei fratelli. A voi tutti, salute, pace, misericordia, amore: «Gratia Domini stri Iesu Christi et caritas Dei et communicatio Sancti Spiritus sit cum omnibus vobis» (2 Cor 13,13)».
Abbiamo ancora l’animo accasciato dal pensiero del tremendo ministero al quale siamo stati scelti: come Pietro, ci pare di aver posto il piede sull’acqua infida, e, scossi dal vento impetuoso, abbiamo gridato con lui verso il Signore: «Domine, salvum me fac» (Mt 14.30). Ma abbiamo sentito rivolta anche a Noi la voce, incoraggiante e al tempo stesso amabilmente esortatrice del Cristo:«Modicae fidei, quare dubitasti?» (Mt 14,31). Se le umane forze, da sole, non possono essere adeguate a tanto peso, l’aiuto di Dio onnipotente, che guida la sua Chiesa attraverso i secoli in mezzo a tante contraddizioni e contrarietà, non mancherà certo anche a Noi, umile e ultimo Servus servorum Dei. Tenendo la Nostra mano in quella di Cristo, appoggiandoci a Lui, siano saliti anche Noi al timone di questa nave, che è la Chiesa; essa è stabile e sicura, pur in mezzo alle tempeste, perché ha con sé la presenza confortatrice e dominatrice del Figlio di Dio. Secondo le parole di S. Agostino, che riprende un’immagine cara all’antica Patristica, la nave della Chiesa non deve temere, perché è guidata da Cristo: «Quia etsi turbatur navis, navis est tamen. Sola portat discipulos et recipit Christum. Periclitatur quidam in mari, sed sine illa statim peritur» (S. Augustini Sermo 75,3; PL38, 475). Solo in essa v’è salvezza: sine illa peritur! Con questa fede, Noi procederemo. L’aiuto di Dio non Ci mancherà secondo la promessa indefettibile: «Ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi» (Mt 28,20)….
Ci soccorre,  darci forza nell’arduo compito, il ricordo soavissimo dei nostri Predecessori, la cui amabile dolcezza e intrepida forza Ci sarà di esempio nel programma pontificale: ricordiamo in particolare le grandissime lezioni di governo pastorale lasciateci dai Papi a Noi più vicini, come Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, che con la loro sapienza, dedizione, bontà e amore alla Chiesa e al mondo hanno lasciato un’orma incancellabile nel nostro tempo tormentato e magnifico. Ma è soprattutto al compianto Pontefice Paolo VI, Nostro immediato Predecessore, che va  il trasporto commosso del cuore e della venerazione. La sua morte rapida, che ha lasciato attonito il mondo secondo lo stile dei gesti profetici di cui ha costellato il suo indimenticabile pontificato, ha messo nella giusta luce la statura straordinaria di quel grande e umile uomo, al quale la Chiesa deve l’irraggiamento straordinario, pur fra le contraddizioni e le ostilità, raggiunto in questi quindici anni, nonché l’opera immane, infaticabile, senza soste, da Lui posta nella realizzazione del Concilio e nell’assicurare al mondo la pace, tranquillitas ordinis.
Il nostro programma sarà quello di continuare il suo, nella scia già segnata con tanti consensi dal grande cuore di Giovanni XXIII:
-    vogliamo cioè continuare nella prosecuzione dell’eredità del Concilio Vaticano II, le cui norme sapienti devono tuttora essere guidate a compimento, vegliando a che una spinta, generosa forse ma improvvida, non ne travisi i contenuti e i significati, e altrettanto che forze frenanti e timide non ne rallentino il magnifico impulso di rinnovamento e di vita;
-    vogliamo conservare la grande disciplina della Chiesa, nella vita dei sacerdoti e dei fedeli, quale la collaudata ricchezza della sua storia ha assicurato nei secoli con esempi di santità ed eroismo, sia nell’esercizio delle virtù evangeliche sia nel servizio dei poveri, degli umili, degli indifesi; e a questo proposito porteremo innanzi la revisione del Codice di Diritto Canonico, sia della tradizione orientale sia di quella latina, per assicurare, alla linfa interiore della santa libertà dei figli di Dio, la solidità e la saldezza delle strutture giuridiche;
-    vogliamo ricordare alla Chiesa intera che il suo primo dovere resta quello dell’evangelizzazione, la cui linee maestro il Nostro Predecessore Paolo VI ha condensato in un memorabile documento: animata dalla fede, nutrita dalla Parola di Dio, e sorretta dal celeste alimento dell’Eucaristia, essa deve studiare ogni via, cercare ogni mezzo,«opportune importune» (2 Tim 4,2), per seminare il Verbo, per proclamare il messaggio, per annunciare la salvezza che pone nelle anime l’inquietudine della ricerca del vero e in questa le sorregge con l’aiuto dall’alto; se tutti i figli della Chiesa sapranno esser instancabili missionario del Vangelo, una nuova fioritura di santità e di rinnovamento sorgerà nel mondo, assetato di amore e di verità;
-    vogliamo continuare lo sforzo ecumenico, che consideriamo l’estrema consegna dei Nostri immediati Predecessori, vegliando con fede immutata, con speranza invitta e con amore indeclinabile alla realizzazione del grande comando di Cristo: «Ut omnes unum sint» (Gv 17,21), nel quale vibra l’ansia del suo Cuore alla vigilia dell’immolazione del Calvario; le mutue relazioni fra le Chiese di varia denominazione hanno compiuto progressi costanti e straordinari, che sono davanti agli occhi di tutti; ma la divisione non cessa peraltro di essere occasione di perplessità, di contraddizione e di scandalo agli occhi dei non cristiani e dei non credenti: e per questo intendiamo dedicare la Nostra meditata attenzione a tutto ciò che può favorire l’unione, senza cedimenti dottrinali ma anche senza esitazioni,
-    vogliamo proseguire con pazienza e fermezza in quel dialogo sereno e Costruttivo, che il mai abbastanza compianto Paolo VI ha posto a fondamento e programma della sua azione pastorale, dandone le linee maestre nella grande Enciclica «Ecclesiam suam», per la reciproca conoscenza, da uomini a uomini, anche con coloro che non condividono la nostra fede, sempre disposti a dar loro  testimonianza della fede che è in noi, e della missione che il Cristo Ci ha affidata,«ut credat mundus» (Gv 17,21);
-    vogliamo infine favorire tutte le iniziative lodevoli e buone che possano tutelare e incrementare la pace nel mondo turbato: chiamando alla collaborazione tutti buoni, i giusti, gli onesti i retti di cuore, per fare argine, all’interno delle nazioni, alla violenza cieca che solo distrugge e semina rovine e lutti, e, nella vita internazionale, per portare gli uomini alla mutua comprensione, alla congiunzione degli sforzi che favoriscano il progresso sociale, debellino la fame del corpo e d’ignoranza dello spirito, promuovano l’elevazione dei popoli meno dotati di beni di fortuna eppur ricchi di energie e di volontà».
Il 30 agosti 1968 rivolgi la tua parola ai cardinali e oltre al testo ufficiale tu aggiungi qualche parola che recupero dall’articolo di P. Federico Lombardi S.J.: “Giovanni Paolo I: La santità di  un vescovo umile”.
«Qui vedo il cardinal Felici. Con la sua solita amabilità, prima che finisse lo scrutinio è venuto, perché era appena davanti a me, e ha detto: “Messaggio per il nuovo Papa”. “Grazie”, ho detto io, ma non ero ancora fatto.  Ho aperto. Cosa c’era? Una piccola Via Crucis. Quella è la strada dei papi, però nella Via Crucis uno  dei personaggi è anche il Cireneo. Spero che i miei confratelli cardinali aiuteranno questo povero cristo, Vicario di Cristo, a portare la croce con la loro collaborazione, di cui io sento tanto bisogno…Nessuno che io sappia ha osato dire – non sarebbe stato biblico – che la Chiesa è anche, almeno nella sua organizzazione esterna, un orologio che, con le sue lancette, segna al mondo certe direttive. Può esser detta anche così: ma allora quelli che silenziosamente danno ogni giorno la carica, ricaricano, sono quelli della congregazione, un lavoro umile, nascosto, però molto prezioso, che va apprezzato, del quale io sono del tutto ignorante, proprio devo dire… La prima roba che ho fatto, appena fatto papa – ho avuto un po’ di tempo – prendere in mano l’annuario, studiarlo un po’… gli organismi della Santa Sede, tanto ignorante e distante  dal conoscere bene gli ingranaggi della Santa Sede. Spero che mi aiutiate» (cf La Civiltà Cattolica, q. 4131-4132, 6 agosto/3 settembre 2022, p. 287)
La domenica 3 settembre 1978 con la celebrazione dell’Eucaristia sul sagrato della Basilica di S. Pietro dai inizio al tuo servizio e nell’omelia,  dopo una breve introduzione in latino «perché – come è noto – esso è la lingua ufficiale della Chiesa, della quale, in maniera palmare ed efficace esprime la universalità e l’unità”: «Venerabiles fratres ac dilecti filli, In hac sacra celebratione,qua solemne fit initium ministerii Summi Ecclesiae Pastoris, humeris Nostris impositi, mentem imprimis adorantes orantesque convertimur ad Deum, infinitum et aeternum, qui consilio suo, humanis argumentis inexplicabili, et benignissima dignatione sua ad Cathedram beati Pietri Nos evexit…» ti soffermi sulla parola di Dio che  «ci ha presentato anzitutto la Chiesa, prefigurata ed intravista dal profeta Isaia (Is 2,2-15), come il nuovo Tempio, al quale affluiscono da tutte le parti, desiderosi  di conoscere la Legge e di osservarla docilmente, mentre le terribili armi di guerra sono trasformate in strumenti di pace. Ma questo nuovo Tempio misterioso, polo di attrazione della nuova umanità, ci ricorda San Pietro, ha una sua pietra angolare, viva, scelta preziosa (1 Pt 2.4-9), che è Gesù Cristo, il quale ha fondato la sua Chiesa sugli Apostoli e l’ha edificata sul beato Pietro, loro capo (LG ,19).
«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18): parole gravi e solenni che Gesù, a Cesarea di Filippo rivolge a Simone, figlio di Giovanni, dopo la professione di fede che non è stato il prodotto di una logica umana del pescatore di Betsaida, o l’espressione di una sua particolare perspicacia, o l’effetto di una sua mozione piscologica, ma frutto misterioso e singolare di una autentica rivelazione del Padre celeste. E Gesù muta a Simone il nome in Pietro, significando con questo il conferimento di una speciale missione; gli promette di edificare su di lui la propria Chiesa, la quale non sarà travolta dalle forze del male o della morte; gli conferisce le chiavi del regno di Dio, nominandolo così massimo responsabile della sua Chiesa, e gli da il potere di interpretare autenticamente la legge divina. Dinanzi a questi privilegi, o per meglio dire, dinanzi a questi compiti sovrumani affidati a Pietro, S. Agostino ci avverte: «Pietro per natura era semplicemente un uomo; per grazia un cristiano; per una grazia ancora più abbondante uno e, nello stesso tempo, il primo degli Apostoli» (S.Augustini, In Ioannis Evang. Tract. 124,5; PL 35,1973).
Con attonita e comprensibile trepidazione, ma ancora con immensa fiducia nella potente grazia di Dio e nella ardente preghiera della Chiesa, abbiamo accettato di diventare il Successore di Pietro nella sede di Roma, assumendo il «giogo», che Cristo ha voluto porre sulle nostre fragili spalle. E ci par di sentire come indirizzate a Noi, le parole che S. Efrem fa rivolgere da Cristo a Pietro: «Simone, mio apostolo, io ti ho costituito fondamento della Santa Chiesa.  Io ti ho chiamato già da prima Pietro perché tu sosterrai tutti gli edifici; tu sei il sovraintendente di coloro che edificheranno la Chiesa sulla terra;… tu sei la sorgente della fonte, da cui si attinge la mia dottrina; tu sei il capo dei miei apostoli; … ti ho dato le chiavi del mio regno» (cf S. Efrem, Sermones in Hebodmandem sanctam, 4,1).
Fin dal primo momento della nostra elezione e nei giorni immediatamente successivi, siamo stati profondamente colpiti ed incoraggiati dalle manifestazioni di affetto dei nostri figli di Roma ed anche di coloro, che da tutto il mondo ci fan pervenire l’eco della loro incontenibile esultanza per il fatto che ancora una volta Dio ha donato alla Chiesa il suo Capo visibile. Riecheggiano spontanee nel nostro animo le commosse parole che il nostro grande e santo Predecessore S. Leone Magno, rivolgeva ai fedeli romani: «Non cessa di presieder alla sua sede il beatissimo Pietro, ed è stretto all’eterno Sacerdote in una unità che non viene mai meno… E perciò tutte le manifestazioni di affetto, che per degnazione fraterna o pietà filiale avete rivolto a noi, riconoscete, con maggiore devozione e verità, di averle rivolte a colui, alla cui sede noi godiamo non tanto di presieder, quanto di servire» (S. Leonis Magni, Sermo V,4-6; PL 54, 155-156)….
Circondati dal vestro amore e sostenuti dalla vostra preghiera, iniziamo il nostro servizio apostolico invocando come splendida stella del nostro cammino la Madre di Dio, Maria, «Salus Populi Romani» e «Mater Ecclesiae», che la Liturgia venera in modo particolare in questo mese di settembre. La Vergine, che ha guidato con delicata tenerezza la nostra vita di fanciullo, di seminarista, di sacerdote e di Vescovo, continui ad illuminare e dirigere i nostri passi, perché, fatti voce di Pietro, con gli occhi e mente fissi al suo Figlio, Gesù, proclamiamo nel mondo, con gioiosa fermezza, la nostra professione di fede:«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Amen».
Altro momento indimenticabile degli inizi del tuo pontificato è stato quello in cui hai presieduto la cappella papale per la presa di possesso della Cathedra Romana.
Dopo il saluto del card. Ugo Poletti, vicario della diocesi di Roma. e il saluto del sindaco prof. Giulio Argan, e la proclamazione della parola di Dio tu hai preso la parola per spiegare le tre letture bibliche, scelte dal maestro delle cerimonie pontificie .
«1. La prima lettura (Is 60,1-6) può venir riferita a Roma. È noto a tutti che il Papa in tanto acquista autorità su tutta la Chiesa in quanto è vescovo di Roma, successore cioè, in questa città, di Pietro. Ed in grazia specialmente di Pietro, la Gerusalemme di cui parlava Isaia, può essere considerata una figura, un preannuncio di Roma. Anche di Roma, in quanto sede di Pietro, luogo del suo martirio e centro della Chiesa cattolica, si può dire: «sopra di te, risplenderà il Signore e la Sua gloria si manifesterà… i popoli cammineranno alla tua luce» (Is 60,2). Ricordando i pellegrinaggi degli Anni Santi e quelli che continuano a svolgersi negli anni normali con costante afflusso, si può, col profeta, apostrofare Roma così: «Gira intorno gli occhi e guarda… figli vengono a te da lontano… si riverserà sopra di te la moltitudine delle genti del mare e le schiere dei popoli verranno a te» (Is 60,4.5). È un onore questo per il Vescovo di Roma e per voi tutti. Ma è anche una responsabilità. Troveranno, qui, i pellegrini un modello di vera comunità cristiana? Saremo capaci, noi, con l’aiuto di Dio, vescovo e fedeli, di realizzare qui le parole di Isaia scritte  sotto quelle citate prima, e cioè: «noi si udrà più parlare di violenza nella tua terra… il tuo sarà un popolo tutto di giusti» (Is 60, 18.21)? Pochi minuti fa il Prof. Argan, sindaco di Roma, mi ha rivolto un cortese indirizzo di saluto e di augurio. Alcune delle sue parole m’hanno fatto venire in mente una delle preghiere, che fanciullo, recitavo con la mamma. Suonava così: «I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio sono… opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai». A sua volta, il parroco mi interrogava  alla scuola di catechismo: «I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché sono dei più gravi e funesti?». Ed io rispondevo col Catechismo di Pio X: «… perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio» (Catechismo di Pio X, 154). Roma sarà una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con l’affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l’amore ai poveri. Questi – diceva il diacono romano Lorenzo – sono i veri tesori della Chiesa; vanno, pertanto, aiutati, da chi può, ad avere e ad essere di più senza venire umiliati ed offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in cose futili e non investito – quanto possibile – in imprese di comune vantaggio.             
       2. La seconda lettura (Ebr 13,7-8. 15-17. 20-21) si adatta ai fedeli di Roma… Confesso che parlando essa di obbedienza, mi mette un po’ in imbarazzo. È così difficile, oggi, convincere, quando si mettono a confronto i diritti della persona umana con i diritti dell’autorità e della legge! Nel libro di Giobbe viene descritto un cavallo da battaglia: salta come una cavalletta e sbuffa; scava con lo zoccolo la terra, poi si slancia con ardore, quando la tromba squilla, nitrisce di giubilo; fiuta da lungi la lotta, le grida dei capi e il clamore delle schiere (Gb 39,15-25). Simbolo della libertà. L’autorità, invece, rassomiglia al cavaliere prudente, che monta il cavallo e, ora con la voce soave, ora lavorando saggiamente di speroni, di morso e di frustino, lo stimola, oppure ne modera la corsa impetuosa, lo frena e trattiene. Mettere d’accordo cavallo e cavaliere, libertà e autorità, è diventato un problema sociale. Ed anche di Chiesa. Al concilio sì è tentato di risolverlo nel quarto capitolo della «Lumen Gentium><. Ecco le indicazioni conciliari per il «cavaliere»: «I sacri pastori, sanno benissimo quanto contribuiscano i laici al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutta la missione della salvezza che la Chiesa ha ricevuto nei confronti del mondo, ma che il loro magnifico incarico è di pascere i fedeli e d riconoscere i loro servizi e i loro carismi, in modo che tutti cooperino, nella loro misura, all’opera comune» (Lumen gentium, 30). Ed ancora: sanno anche i pastori, che «nelle battaglie decisive è talvolta dal fronte che partono le iniziative più indovinate» (cf ibidem, 37 nota 7). Ecco, invece, un’indicazione del Concilio per il «generoso destriero» cioè per i laici: al vescovo «i fedeli devono aderire come la Chiesa a Gesù Cristo e come Cristo al Padre» (ibidem, 27). Preghiamo che il Signore aiuti sia il vescovo che i fedeli, sia il cavaliere che i cavalli. M’è stato detto che nella diocesi di Roma sono   numerose le persone che si prodigano per i fratelli, numerosi i catechisti; molti ancora aspettano un cenno per intervenire e collaborare. Che il Signore ci aiuti tutti a costituire a Roma una comunità cristiana viva e operante. Non per nulla ho citato il capitolo quarto della «Lumen Gentium»: è il capitolo della «comunione ecclesiale». Quanto detto, però, riguarda specialmente i laici. I sacerdoti, i religiosi e e le religiose, hanno una posizione particolare, legati come sono o dal voto o della promessa di obbedienza. Io ricordo come uno dei punti solenni della mia esistenza il momento in cui, messe le mei mani in quelle del vescovo, ho detto: «Prometto». Da allora mi sono sentito impegnato per tutta la vita e mai ho pensato che si fosse trattato di cerimonia senza importanza. Spero che i sacerdoti di Roma pensino pertanto altrettanto. Ad essi ed ai religiosi S. Francesco di Sales ricorderebbe l’esempio di S. Giovanni battista, che visse nella solitudine, lontano dal Signore, pur desiderando  tanto di essergli vicino. Perché? Per obbedienza; «sapeva – scrive il santo – che trovare il Signore all’infuori dell’obbedienza significava perderlo».
3. La terza lettura (Mt 28,16-20) ricorda al vescovo di Roma i suoi doveri.
Il primo è di «ammaestrare», proponendo la parola del Signore con fedeltà sia a Dio, sia agli ascoltatori, con umiltà ma con franchezza non timida. Tra i miei santi predecessori vescovi di Roma due sono anche Dottori della Chiesa: S. Leone, il vescovo di Attila, e S. Gregorio Magno. Negli scritti del primo c’è un pensiero teologico altissimo e sfavilla una lingua latina stupendamente architettata; non penso nemmeno di poterlo imitare, neppure da lontano. Il secondo, nei suoi libri, è «come un padre, che istruisce i propri figlioli e li mette a parte delle sue sollecitudini per la loro eterna salvezza» (I. Schuster). Vorrei cercare di imitare il secondo, che dedica l’intero libro terzo della sua “Regula Pastoralis” al tema «qualiter doceat», come cioè il pastore debba insegnare. Per quaranta interi capitoli Gregorio indica in modo concreto le varie forme di istruzione secondo le varie circostanze di condizione sociale, età, salute e temperamento morale degli uditori. Poveri e ricchi, allegri e melanconici, superiori e sudditi, dotti e ignoranti, sfacciati e timidi, e via dicendo, in quel libro, ci sono tutti, è come la valle di Giosafat. Al Concilio Vaticano II parve nuovo che venisse chiamato «pastorale» non più ciò che veniva insegnato ai pastori, ma ciò che i pastori facevano per venire incontro ai bisogni, alle ansie, alle speranze degli uomini. Quel «nuovo» Gregorio l’aveva già attuato parecchi secoli prima, sia nella predicazione sia nel governo della Chiesa.
Il secondo dovere, espresso dalla parola «battezzare», si riferisce ai Sacramenti e a tutta la liturgia. La diocesi di Roma ha seguito il programma della CEI «Evangelizzazione e Sacramenti»; conosce già che evangelizzazione, sacramento e vita santa sono tre momenti di un unico cammino: l’evangelizzazione prepara al sacramento, il sacramento porta chi l’ha ricevuto a vivere cristianamente. Vorrei che questo grande concetto fosse applicato in misura sempre più larga. Vorrei pure che Roma desse il buon esempio in fatto di Liturgia celebrata piamente e senza «creatività» stonate. Taluni abusi in materia liturgica hanno potuto favorire, per reazione, atteggiamenti che hanno portato a prese di posizione in se stesse insostenibili e in contrasto col Vangelo. Nel fare appello, con affetto e con speranza, al senso di responsabilità di ognuno di fronte a Dio e alla Chiesa, vorrei poter assicurare che ogni irregolarità liturgica sarà diligentemente evitata.
Ed eccomi all’ultimo dovere vescovile: «insegnare ad osservare»; è la diaconia, il servizio della guida e del governare. Benché io abbia già fatto per vent’anni il vescovo imparato vo a Vittorio Veneto e a Venezia, confesso di non aver ancora bene « imparato il mestiere». A Roma mi metterò alla scuola di S. Gregorio Magno, che scrive: «sia vicino (il pastore) a ciascun suddito con la compassione; dimenticando il suo grado, si consideri equale ai sudditi buoni, ma non abbia timore di esercitar4e contro i malvagi i diritti della sua autorità. Ricordi: mentre tutti i sudditi levano al cielo ciò che egli ha fatto di bene, nessuno osa biasimare ciò che ha fatto di male; quando reprime i vizi, non cessi di riconoscersi con umiltà eguale ai fratelli da lui coretti; e si senta davanti a Dio tanto più debitore quanto più impunite restano le sue azioni davanti agli uomini» (S. Gregorii Magni, Regula Pastoralis, Pars II, cc. 5 et 6 passim).
Qui finisce la spiegazione delle tre letture bibliche. Mi sia permesso aggiungere una sola cosa: è legge di Dio che non si possa fare del bene a qualcuno, se prima non gli si vuol bene. Per questo S. Pio X, entrando patriarca a Venezia, aveva esclamato in s. Marco: «Cosa sarebbe di me, Veneziani, se non vi amassi?». Io dico ai romani qualcosa di simile: posso assicurarvi che vi amo, che desidero solo entrare al vostro servizio e mettere a disposizione di tutti le mie povere forze, quel poco che ho e che sono.».                
Nel brevissimo spazio del tuo luminoso pontificato hai potuto tenere soltanto quattro udienze generali (6-13-20-27 settembre 1978), nelle quali da provetto catechista hai voluto «aiutare la gente a diventare più buona», soffermandoti su alcune delle «sette lampade della santificazione», così come papa Giovanni chiamava le virtù teologali e cardinali del cristiano: fede, speranza, carità, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Nella prima udienza del 6 settembre 1978 chiami al dialogo un bambino maltese. Ti ascolto quando svolgi il tema “Vivere la fede” nell’udienza del 13 settembre 1978.
«… Chissà se lo Spirito Santo aiuta il povero Papa oggi ad illustrare almeno una di queste lampade, la prima: la fede. Qui, a Roma, c’è stato un poeta, Trilussa, il quale ha cercato anche lui di parlare della fede. In una certa sua poesia, ha detto: «Quella vecchietta ceca, che incontrai / la sera che mi  spersi in mezzo ar bosco, / me disse:- se la strada nun la sai / te accompagno io, che la conosco./ Se ciai la forza de venimme appresso / de tanto in tanto te darò na voce, / fino là in fonno, dove c’è un cipresso, / fino là in cima, dove c’è una croce. / Io risposi: Sarà… ma trovo strano / che me possa guidà chi nun ce vede… / La ceca, allora, me pijò la mano / e sospirò: -Cammina-. Era la fede».
Come poesia, graziosa; come teologia, difettosa. Difettosa perché quando si tratta di fede, il grande regista è Dio, perché Gesù ha detto: nessuno viene a me se il Padre mio non lo attira. S. Paolo non aveva la fede, anzi perseguitava i fedeli. Dio lo aspetta sulla strada di Damasco: «Paolo – gli dice – non sognarti neanche di impennarti, di tirar calci, come un cavallo imbizzarrito. Io sono quel Gesù che tu perseguiti. Ho disegni su di te. Bisogna che tu cambi!». Si è arreso, Paolo; ha cambiato, capovolgendo la propria vita. Dopo alcuni anni scriverà ai Filippesi: «Quella vota, sulla strada di Damasco, Dio mi ha ghermito; da allor aio non faccio altro che correre dietro a Lui, per vedere se anche io sarò capace di ghermirlo, imitandolo, amandolo sempre più». Ecco che cosa è la fede. Arrendersi a Dio, ma trasformando la propria vita. Cosa non sempre facile.
Agostino ha raccontato il viaggio della sua fede; specialmente nelle ultime settimane è stato terribile, leggendo si sente la sua anima quasi rabbrividire e torcersi in conflitti interiori. Di qua, Dio che lo chiama e insiste, e di là, le antiche abitudini, «vecchie amiche» - scrive lui-; e mi tiravano dolcemente per il mio vestito di carne e mi dicevano: «Agostino, come?!, tu ci abbandoni? Guarda, che tu non potrai più far questo, non potrai più far quell’altro e per sempre!”». Difficile! «Mi trovavo – dice – nello stato di uno che è a letto, al mattino. Gli dicono: ”Fuori, Agostino, alzati!”. Io invece, dicevo: “Sì, ma più tardi, ancora un pochino!”. Finalmente il Signore mi ha dato uno strattone, sono andato fuori. Ecco, non bisogna dire: Sì ma; sì, ma più tardi. Bisogna dire: Signore, sì! Subito! Questa è la fede. Rispondere con generosità al Signore. Ma chi è che dice questo sì? Chi è umile e si fida di Dio completamente!».
Mia madre mi diceva quand’ero grandetto: da piccolo sei stato molto ammalato: dovuto portarti da un medico all’altro e vegliare notti intere; mi credi? Come avrei potuto dire: mamma non ti credo? Ma sì che credo, credo a tutto quello che mi dici, ma credo specialmente a te. E così è nella fede. Non si tratta solo di credere alle cose che Dio ha rivelato ma a Lui, che merita la nostra fede, che ci ha tanto amato e tanto ha fatto per amore nostro. Difficile è anche accettare qualche verità, perché le verità della fede sono di due specie, alcune gradite, altre ostiche ai nostro spirito. Per esempio, è gradito sentire che Dio ha tanta tenerezza verso di noi, più tenerezza di quella che ha una mamma verso i suoi figlioli, come dice Isaia. Com’è gradito e congeniale. C’è stato un grande vescovo francese, Dupanloup, che ai rettori dei seminari era solito dire: con i futuri sacerdoti, siate padri, siate madri. È gradito. Con altre verità, invece, si fa fatica. Dio deve castigare; se proprio io resisto. Egli mi corre dietro, mi supplica di convertirmi ed io dico: no!, quasi sono io a costringerlo a castigarmi. Questo non è gradito. Ma è verità di fede. E c’è un’ultima difficoltà, la Chiesa. S Paolo ha chiesto: Chi sei Signore? – Sono quel Gesù che tu perseguiti.
Una luce, un lamo ha attraversato la sua mente. Io non perseguito Gesù, manco lo conosco: perseguito invece i cristiani. Si vede che Gesù e i cristiani, Gesù e la Chiesa sono la stessa cosa: inscindibile, inseparabile.
Leggete San Paolo: «Corpus Christi quod est Ecclesia». Cristo e la Chiesa son una sola cosa. Cristo è il Capo, noi, la Chiesa, siamo le sue membra. Non è possibile aver la fede, e dire io credo in Gesù, accetto Gesù ma non accetto la Chiesa. Bisogna accettare la Chiesa, quella che è, e come è questa Chiesa? Papa Giovanni l’ha chiamata «Mater et Magistra». Anche maestra. San Paolo ha detto: «Ognuno ci accetti come aiuti di Cristo ed economi e dispensatori dei suoi misteri».
Quando il povero Papa, quando i vescovi, i sacerdoti propongono la dottrina, non fanno altro che aiutare Cristo. Non è dottrina nostra, è quella di Cristo, dobbiamo solo custodirla, e presentarla. Io ero presente quando Papa Giovanni ha aperto il Concilio l’11 ottobre 1962. Ad un certo punto ha detto: Speriamo che con il Concilio la Chiesa faccia un balzo avanti. Tutti lo abbiamo sperato, però balzo avanti, su quale strada? Lo ha detto subito: sulle verità certe ed immutabili. Non ha neppur sognato Papa Giovanni che fossero le verità a camminare, ad andare avanti, e poi, un po’ alla volta, a cambiare. Le verità sono quelle; noi dobbiamo camminare sulla strada di queste verità, capendo sempre di più, aggiornandoci, proponendole in una forma adatta ai nuovi tempi. Anche Papa Paolo aveva lo stesso pensiero. La prima cosa che ha fatto, appena fatto Papa, fu di entrare nella Cappella privata della Casa Pontificia; lì in fondo Papa Paolo ha fatto fare due mosaici: San Pietro e San Paolo: San Pietro che muore, San Paolo che muore; ma sotto San Pietro ci sono le parole di Gesù: Pregherò per te, Pietro, perché non venga mai meno la tua fede. Sotto San Paolo, che riceve il colpo di spada: ho consumato la mia corsa, ho conservato la fede. Voi sapete che nell’ultimo discorso del 29 giugno, Paolo VI ha detto: dopo quindi anni di pontificato, posso ringraziare il Signore; ché ho difeso, ho conservato la fede.
È madre anche la Chiesa. Se è continuatrice di Cristo e Cristo è  buono: anche la Chiesa deve essere buona; buona verso tutti; ma se pere caso, qualche volta ci fossero nella Chiesa dei cattivi? Noi ce l’abbiamo, la mamma. Se la mamma  è malata, se mia madre per caso diventasse zoppa, io le voglio più bene ancora. Lo stesso nella Chiesa: se ci sono, e ci sono, dei difetti e delle mancanze, non deve mai venire meno il nostro affetto verso la Chiesa. Ieri – e finisco – mi hanno mandato il numero di «Città Nuova»: ho visto che hanno riportato, registrandolo, un mio brevissimo discorso, con un episodio. Un certo predicatore Mac Nabb, inglese, parlando ad Hyde park, aveva parlato della Chiesa. Finito, uno domanda la parola e dice: belle parole le sue. Però io conosco qualche prete cattolico, che non è stato coi poveri e si è fatto ricco. Conosco anche dei coniugi cattolici che hanno tradito la loro moglie; non mi piace questa Chiesa fatta di peccatori. Il Padre ha detto: ha un po’ ragione, ma posso fare un’obiezione? – Sentiamo – Dice: scusa, ma sbaglio oppure il colletto della sua camicia è unto?- Dice: sì, lo riconosco.- Ma è unto, perché non hai adoperato il sapone, o perché hai adoperato il sapone e non è giovato a niente? No, dice, non ho adoperato il sapone. Ecco. Anche la Chiesa cattolica ha del sapone straordinario: vangelo, sacramenti, preghiere. Il vangelo letto e vissuto; i sacramenti celebrati nella dovuta maniera; la preghiera ben usata sarebbero un sapone meraviglioso capace di farci tutti santi. Non siamo tutti santi, perché non abbiamo adoperato abbastanza questo sapone. Vediamo di corrispondere alle speranze dei Papi, che hanno indetto e applicato il Concilio, Papa Giovanni, Papa Paolo. Cerchiamo di migliorare la Chiesa, diventando noi più buoni. Ciascuno di noi e tutta la Chiesa potrebbe recitare la preghiera ch’io sono solito recitare: Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri.
Io devo dire una parola anche ai nostri cari ammalati, che vedo lì. Lo sapete, Gesù ha detto: mi nascondo dietro a loro; quello che viene fatto a loro vien fatto a me. Quindi nelle loro persone noi veneriamo il Signore stesso e auguriamo che il Signore sia loro vicino, li aiuti e li sostenga.
A destra invece ci sono gli sposi novelli. Hanno ricevuto un grande sacramento; facciamo voti che questo sacramento ricevuto sia veramente apportatore non solo di beni di questo mondo, ma più di grazie spirituali. Nel secolo scorso c’era in Francia Federico Ozanam, grande professore; insegnava alla Sorbona, ma eloquente, ma bravissimo! Suo amico era Lacordaire, il quale diceva: « È così bravo, è così buono, si farà prete, diventerà un vescovone, questo qui!». No! Ha incontrato una brava signorina, si sono sposati. Lacordaire c’è rimasto male, e ha detto: «Povero Ozanam! È cascato anche lui nella trappola!». Ma due anni dopo, Lacordaire venne a Roma e fu ricevuto da Pio IX: «Venga, Padre, - dice – venga. Io ho sempre sentito dire che Gesù ha istituito sette sacramenti: adesso viene Lei, mi cambia le carte in tavola; mi dice che ha istituito sei sacramenti, e una trappola! No, Padre, il matrimonio non è una trappola, è un grande sacramento!». Per questo facciamo di nuovo gli auguri a questi cari Sposi; che il Signore li benedica!»        
8. Siamo arrivati al momento drammatico della tua morte improvvisa nella notte del 28 settembre 1978 che il card. Ugo Poletti nel suo messaggio alla città di Roma definisce: «un luttuoso, impensato, misterioso avvenimento». Il comunicato ufficiale del tuo decesso è riportato nell’edizione delle ore 11 del 29 settembre 1978 dall’Osservatore Romano:
«Questa mattina, 29 settembre 1978, verso le 5,30, il segretario privato del Papa, non avendo trovato il Santo Padre nella Cappella del suo appartamento privato, come di solito, lo ha cercato nella sua camera e lo ha trovato morto nel letto, con la luce accesa, come persona intenta alla lettura. Il medico, dr. Renato Buzzonetti, immediatamente accorso, ne ha constatato il decesso, avvenuto presumibilmente verso le 23 di ieri, per infarto miocardico acuto».
A correggere la comunicazione ufficiale della tua morte, scoperta dal tuo segretario Mons. John Magee, il tuo primo biografo Camillo Bassotto raccoglierà questa testimonianza di sr. Vincenza Taffarel: «Io ero solita ogni mattina, sulle 5 circa, depositare nell’anticamera della stanza da letto un caffè caldo e leggero che Luciani prendeva da sempre. Gli serviva per schiarirsi la gola. Battevo due o tre colpi sulla porta per avvisare il Santo Padre che il caffè era pronto. Quel mattino passarono parecchi minuti, e il caffè era sempre là. Battei di nuovo, chiamai «Santo padre», ma nessuna risposta e nessun rumore. Il cuore mi tremò. Entrai. La luce era accesa. Scostai la tenda che separava il letto. Mi apparve Giovanni Paolo I, papa Luciani, morto». Tra le tue  mani erano alcuni fogli, appunti di una vecchia omelia,  che stavi leggendo, e avevi gli occhiali con gli occhi ancora aperti.
Circa l’ora della morte il dr. Renato Buzzonetti la pone tra le 22.30 e le 23 del 28 settembre, ma sr. Vincenza Taffarel precisa che aveva sfiorato la tua fronte e  notato che era tiepida e quindi si ipotizza che il decesso sia avvenuto verso le ore 4,30 del 29 settembre, a differenza di Mons. John Magee dirà che il tuo corpo era rigido e freddo e quindi erano trascorse molte ore.
Avevi trascorso la giornata del 28 settembre impegnato nel consueto lavoro e nascondendo ai tuoi collaboratori qualche malore avvertito. Il card. Jean.Marie Villot, segretario di stato, lo ricevi in udienza alle ore 18,30 e dirà che tu eri «sereno, disteso, senza alcun segno di stanchezza, in buono stato e perfettamente lucido». Il tuo segretario Mons. Diego Lorenzi nel 1987, premettendo che “non l’ho mai rivelato a nessuno perché nessuno è mai venuto a chiedermi spiegazioni o lumi al riguardo”, dichiarerà che al termine dell’udienza al card. Villot, dice che tu gli riveli di aver avvertito «fitte e dolori al petto, con un forte senso di forte preso e oppressione».
Consumi la cena con i due segretari Mons. John Magee e Mons. Diego Lorenzi e verso le ore 21. Hai un colloquio telefonico con il card. Giovanni Colombo, arcivescovo di Milano. Alle ore 21.30 interpelli telefonicamente il tuo medico personale. Poi ti ritiri nella tua camera e Mons. Magee ti suggerisce di suonare il campanello in ogni evenienza.
Dopo la scoperta del decesso la tua salma viene affidata alle cure degli imbalsamatori sigg. Signoracci, i quali esprimo l’ipotesi che il decesso sia avvenuto tra le ore 4 e le 5.
Il collegio cardinalizio non prende in considerazione la opportunità di una autopsia.
I funerali si svolgono nell’austera semplicità sul sagrato di S. Pietro e vieni sepolto nelle grotte vaticane di fronte al sepolcro di papa Marcello II, che nel 1555 era stato papa per soli ventidue giorni. Qualcuno ricordò anche papa Leone XI che era stato “Magis ostentus quam datus” e che nel 1605 era stato papa per soli ventisei  giorni.
Non vale assolutamente la pena discutere le tante ipotesi avanzate sulle cause della tua morte, che vanno da quella accidentale, prospettata da Gianni Gennari, a quella delittuosa, prospettata dal best seller “In nome di Dio” (1984) di David Yallop che chiama in causa la massoneria (loggia P2) e lo IOR, e infine a quella che l’attribuisce  all’embolia, secondo John Cornwell, autore del saggio “Un ladro nella notte” (1989).
Mi piace il breve ricordo che il tuo successore Giovanni Paolo II fa nella sua prima udienza generale del 25 ottobre 1978: «Quando mercoledì 27 settembre il Santo padre Giovanni Paolo I ha parlato ai partecipanti all’udienza generale, nessuno poteva immaginare che fosse per l’ultima volta. La sua morte -  dopo 33 giorni di pontificato – ha sorpreso e riempito tutto il mondo di profondo lutto. Egli che suscitò nella Chiesa così grande gioia e ispirò nei cuori degli uomini tanta speranza, ha in così breve tempo, consumato e portato alla fine la sua missione. Nella sua morte si è verificata la parola tanto ripetuta del Vangelo: “… state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà” (Mt 24,44). Giovanni Paolo I vegliava sempre. La chiamata del Signore non l’ha sorpreso. Egli l’ha seguita con la stessa trepida gioia, con la quale il 26 agosto aveva accettato l’elezione al soglio di San Pietro».
Più articolato è il tuo profilo tracciato durante l’Angelus del 28 settembre 2008 dal papa emerito Benedetto XVI: «Riflettendo su questi testi biblici, ho pensato subito a papa Giovanni Paolo I, di cui proprio oggi ricorre il trentesimo anniversario della morte. Egli scelse come motto episcopale lo stesso di san Carlo Borromeo: Humilitas. Una sola parola che sintetizza l’essenziale della vita cristiana e indica l’indispensabile virtù di chi, nella Chiesa, è chiamato al servizio dell’autorità. In una delle quattro udienze generali tenute durante il suo brevissimo pontificato disse tra l’altro, con quel tono familiare che lo contraddistingueva: “Mi limito a raccomandare una virtù, tanto cara al Signore che ha detto: Imparate da me che sono mite e umile di cuore… Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: Siamo servi inutili”. E osservò: “Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra” (Insegnamenti di Giovanni Paolo I, pp. 51-52). L’umiltà può essere considerato il suo testamento spirituale. Grazie a questa sua virtù, bastarono 33 giorni perché papa Luciani entrasse nel cuore della gente. Nei discorsi usava esempi tratti da fatti di vita concreta, dai suoi ricordi di famiglia e dalla saggezza popolare. La sua semplicità era veicolo di un insegnamento solido e ricco, che, grazie, ai dono di una memoria eccezionale e di una vasta cultura, egli impreziosiva con numerose citazioni di scrittori ecclesiastici e profani. È stato impareggiabile catechista, sulle orme di san Pio X, suo conterraneo e predecessore prima sulla cattedra di san Marco e poi su quella di san Pietro. “Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio”, disse in quella medesima udienza. E aggiunse: “Non mi vergogno  di sentirmi come un bambino davanti alla mamma: si crede alla mamma; io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato” (ivi, p. 49). Queste parole mostrano tutto lo spessore della sua fede. Mentre ringraziamo Dio per averlo donato alla Chiesa e a la mondo, facciamo tesoro del suo esempio, impegnandoci a coltivare la sua stessa umiltà, che lo rese capace di parlare a tutti, specialmente ai piccolo e a cosiddetti lontani. Invochiamo per questo Maria Santissima, umile Serva del Signore».         
9.    Il processo canonico per la tua beatificazione è iniziato il 17 ottobre 2012 con la presentazione del Summariumn testium fatta dal postulatore Mons. Enrico dal Covolo al prefetto della Congregazione delle cause dei santi card. Angelo Amato. Il 16 ottobre 2015 diventa postulatore il card. Beniamino Stella, prefetto della Congregazione per il clero. Il 17 ottobre 2016 viene presentata la Positio  sulla quale esprimono parere positivo sia il congresso dei consultori teologi sia la sessione dei cardinali e dei vescovi. L’8 novembre 2017 c’è il decreto che riconosce le tue virtù eroiche e poi il 31 ottobre 2019 la Consulta Medica riconosce che la guarigione  della piccola Candela Giarda, avvenuta il 23 luglio 2011 a Buenos Aires per la tua intercessione,  era scientificamente inspiegabile. Finalmente il 13 ottobre 2021 papa Francesco ha riconosciuto il miracolo. Ci prepariamo a vivere il 4 settembre 2022 la gioia della tua beatificazione che è gratitudine a Dio per la tua vita e il tuo umile e breve servizio pontificale, che possiamo definire un sorriso di grazia e speranza per la Chiesa e il mondo.

 

 

Aggiungi commento

Codice di sicurezza
Aggiorna