Lettera al Beato Giovanni Paolo I. Prima parte
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- Pubblicato Martedì, 30 Agosto 2022 01:22
- Scritto da Sac. Pasquale Pirulli
Prima parte
LETTERA AL BEATO GIOVANNI PAOLO I
«papa del sorriso»
Sac. Pasquale Pirulli
1. Nel tempo di vigilia alla solenne celebrazione del 4 settembre 2022 durante la quale papa Francesco scriverà il tuo nome tra i Beati della Chiesa di Cristo mi soffermo a meditare sulla tua vicenda di pastore che nel breve spazio di trentatré giorni ha illuminato col suo sorriso il soglio di Pietro.
Nella biblioteca domestica ho ritrovato l’unico libro che hai pubblicato “ILLUSTRISSIMI” insieme a volumi antologici: “Il MAGISTERO DI ALBINO LUCIANI : Scritti e Discorsi” (a cura di Alfredo Cattabiani, Edizioni Messaggero Padova, 1979); “Così parlò… PAPA LUCIANI” (a cura di Nello Castello, Editrice «Il Carroccio», Vigodarzere – Padova) e il volume monografico: “ Albino Luciani Il BUON SAMARITANO: Corso di Esercizi Spirituali (a cura di Giordano Tollardo, Edizioni Messaggero Padova, 1980). E ancora: Ettore Malnati-Marco Roncalli: Albino Luciai. Una biografia, Edizioni Morcelliana, Brescia. A questi volumi si aggiungono i testi della tua Omelia del 3 settembre 1978 per l’inizio del ministro petrino, del Radiomessaggio “Urbi et Orbi” del 27 agosto 1978, dell’omelia del 23 settembre 1978 per la presa di possesso della Cathedra Romana e delle quattro Udienze generali (6-13-20-27 settembre 1978), recuperati dal sito del Dicastero per la comunicazione – Libreria Editrice Vaticana.
Mi accorgo che questa lettera non potrà minimamente essere accostata a quelle che tu hai scritto da cardinale patriarca di Venezia ai tanti personaggi storici che poi sono state raccolte nel best seller “ILLUSTRISSIMI” delle Edizioni Messaggero di Padova (1a ed. gennaio 1976)
Al santo papa di estradizione contadina San Giovanni XXIII, Angelo Roncalli di Sotto il Monte, dopo il pontificato di Paolo VI deceduto il 6 agosto 1978, il 26 agosto 1978 succedi tu, Albino Luciani, di Canale d’Agordo di estradizione montanara, la cui nomina al mondo è annunciata dalla fumata bianca, che si innalza alle ore 19,18 dal comignolo della Cappella Sistina.
Dopo appena trentatré giorni, il 29 settembre 1978, il giornale radio delle ore 7,30 annuncia: «Papa Luciani è morto». Il tuo biografo Marco Roncalli dinanzi al mistero della tua morte improvvisa ricorda la riflessione di P. Davide Maria Turoldo: «Nessun avvenimento richiede tanto silenzio quanto la morte. Tanto più quella di un Papa che è durato appena un mese. A lui è mancato il tempo di rivelarsi e a noi di scoprirlo nelle sue intenzioni».
Avevi spiazzato tutti rinunciando al tradizionale rito dell’incoronazione con il triregno della tiara e abolendo nei discorsi il NOS maiestatico e a ragione Francesco Alberoni sul Corriere della sera (30 settembre 1978) annotava: «Presentandosi come semplice Vescovo di Roma, successore di Pietro, il nuovo Papa ha riattivato simbolicamente forme precedenti non solo la controriforma, ma addirittura lo scisma d’Oriente. La cerimonia pubblica nella piazza di S. Pietro, la risposta della folla alla Messa, hanno simbolizzato l’acclamazione che un tempo il popolo di Roma dava al suo Vescovo(…) Il nuovo Papa, più che presentarsi come il sovrano di una Chiesa particolare (quella cattolica), ha cercato di presentarsi come il rappresentante dello spirito religioso nel mondo, in qualunque forma di manifesti».
Il direttore dell’Osservatore Romano (30 settembre 1978) Raimondo Manzini si diceva commosso della risposta d’amore del mondo al tuo breve passaggio sul soglio pontificio: «Il Papa Giovanni Paolo I è amato in una misura che si potrebbe dire sproporzionata al tempo e alle opere compiute nella meteorica presenza sul seggio pontificale. Come si è potuto stabilire questo istantaneo incontro, questa diffusa comunicazione e corrispondenza col suo popolo, questa comunione tra il Pastore e i fedeli, e non solo i fedeli? Aveva un carisma, un grazia particolare di suasione e di comunicativa, i cui mezzi di espressione sono stati personali e irripetibili. Era un carisma le cui fonti scaturivano dall’interiorità, dall’unione con Dio, dalla donazione e sublimazione dello spirito esercitato alla pratica della carità. Tale radice fioriva in manifestazione di linguaggio e gesti ricettivi di trasparenza e calore, grazie all’amore di cui il Papa era tanto ricco e per l’accento misericordioso della sua evangelizzazione».
La portata profetica (giudizio e salvezza della storia) del tuo brevissimo pontificato è stata colta da Gaspare Barbiellini Amidei: «Sembrerà un paradosso, ma proprio senza encicliche, né concili e neppure concistori, né dogmi proclamati, né scomuniche comminate la Chiesa ha fatto storia, molta storia, nei 33 giorni di Papa Luciani» (Corriere della Sera 30-9-1978).
2. Desidero qui ripercorrere la storia della tua vita e del tuo profetico e breve servizio petrino e accogliere il suggerimento di Vittorio Gorresio: «Bisognerà studiare meglio la sua rapida esperienza e certamente si arriverà, nella ricerca del suo segreto, alla scoperta di uno spessore consistente» (La Stampa 30-9-1978). Mi pare che lo spessore consistente della tua vita sia precisamente la santità che la Chiesa riconosce dichiarandoti Beato.
Le informazioni sulla tua famiglia e sulla tua infanzia sono nei ricordi di tuo fratello Edoardo.
Tu nasci nella casa di via Rividella n.8 a Forno di Canale, ora Canale d’Agordo, alle ore 12.00 del 17 ottobre 1912 da Giovanni Luciani e Bortola Tancon.
La scheda del tuo paese natio riporta questi dati: Altitudine m. 976, e in data 31 maggio 2022 conta 1062 abitanti. Nel suo territorio si entra dalla strada statale Agordina, non dal ramo che va verso Alleghe, centro di attenzione per il suo «laghetto tascabile» e più ancora per il Civetta (m. 3200) e che prosegue poi verso la Marmolada, la regina delle Dolomiti. Per arrivare a Canale si sale su verso Falcade, la località che mostra la chiesa forse più bella delle Dolomiti, perché la sua espressione architettonica ti ruba lo sguardo quando vai, per salire al passo Valles, o al passo S. Pellegrino, dal giro d’Italia reso noto al mondo sportivo. Canale è su questa strada a 5 km da Cencenighe. Un ponte sul Biois, il torrente che nasce dalle nevi del Focobon, e del Mulaz, introduce dentro a Canale, quasi come i ponti levatoi, delle città murate medievali. Una piazza, e intorno si snodano le case che, larghe, spaziose, a disegno quasi unico anche se diversificate nel volume e nel colore. Nel centro che, subito, accoglie dopo il ponte, si trova tutto ciò che cercano i villeggianti: pro loco, chiesa, municipio, tabacchino, alimentari e negozietti vari, intorno a una fontana, a getto continuo, perché qui, le nevi perenni della Forcella Val Grande e del Mulaz (ricordi di tempi lontani per me) calano a valle acqua abbondante, fredda, rumorosa, da millenni, e forse da milioni di anni, come assicurano «gli studiosi dei sassi». (cf Nello Castello (a cura di), Così parlò Papa Luciani, p. 16).
Il panorama dolomitico è quanto mai suggestivo con le vette, quali Civella, Pelmo, Dima Pape, Sass Nigher, Pale di San Martino, Cimon della Pala, Cime d’Auta e la Marmolada. Nei dintorni scorrono i torrenti Biois e Liera, le cui acque alimentano le centrali idroelettriche di Canale d’Agordo e di Cencenighe. La città di Canale d’Agordo il 5 maggio 1994 è stata decorata dalla medaglia di bronzo al valor militare per la resistenza partigiana all’occupazione nazista con 39 vittime.
Tuo fratello Edoardo ricorda le origini della vostra famiglia: «Il nostro papà si chiamava Giovani e a undici anni era già emigrante nel Tirolo austriaco come garzone muratore. Poi era passato a lavorare nel Baden e in Westfalia, nella Germania di Guglielmo II e lì era venuto a contatto con i socialisti. Mi ricordo che riceveva i giornali socialdemocratici tedeschi, perché lui leggeva un po’ il tedesco. Faceva propaganda che qui. La sera accendeva la pipa e leggeva; aveva dei baffoni, sembrava Stalin. E’ stata mia madre a cambiarlo. Si erano sposati nel 1911: lui era vedovo con due figli, lei aveva 33 anni, non era più una ragazza. Era una donna molto religiosa, e così anche mio padre, senza rinunciare alle sue idee socialiste, ha cominciato ad andare a Messa. Ma il papà era quasi sempre all’estero per il lavoro. Nel 1914 andò in Argentina. tornato in Italia all’inizio della grande guerra, nel 1918 riprese la via dell’emigrazione: in Francia, questa volta , sempre come muratore».
Tu nasci il 17 ottobre 1912 mentre il papà è assente per lavoro in Belgio e tuo fratello precisa: “E’ nato qui. Era l’unica stanza riscaldata. E’ stato battezzato pure qui dalla levatrice, perché pareva che morisse». La levatrice si chiamava Maria Fiocco. Il 19 ottobre 1917 sei portato nella chiesa parrocchiale dove il vicario cooperatore D. Achille Ronzon completa il battesimo con le cerimonie rituali.
La tua salute durante l’infanzia è quanto mai precaria e sempre tuo fratello Edoardo ricorda: «Albino a tre anni ha avuto una polmonite. Pareva che morisse. E’ stato salvato, in extremis, da un capitano medico, ma poi è rimasto sempre debole di polmoni. E’ stato due volte in sanatorio. Non è vero quanto hanno riferito i giornali, che abbia un polmone solo. Come sente è solo un po’ afono di voce. Poi quando era Vescovo a Vittorio Veneto è stato operato due volte per calcoli alla cistifellea; è gracile a vederlo, ma ce la fa. E’ una contraddizione: è fragile, ma lavora la sua giornata e sta in piedi fino alla sera alle 10,30. Non so come faccia, perché queste ore sono piene piene».
Nell’ottobre 1918 inizia per te la frequenza alla scuola elementare e la famiglia deve affrontare le ristrettezze della guerra. Sempre Edoardo racconta: «Praticamente io sono cresciuto alla sua ombra, perché papà era via e la mamma era tutta presa dagli impegni domestici. Lui quando prendeva un pezzetto di pane faceva sempre due parti… Durante la guerra del 1918 nel periodo dell’invasione nel paese si vivevano giorni di carestia. Non si sapeva più dove trovare il pane. Ed un giorno, un giorno solo, mia madre non sapeva più cosa darci da mangiare. Già da tempo eravamo ridotti ad un pugno di erbe cotte o di radici. Così disse: sentite, andate, fate il giro del paese. Albino assieme alla sorella, che poi è morta, suora, è andato per carità. Hanno avuto una patata da un parte, una mezza patata dall’altra, un pezzo di pane. Questo episodio lui non l’ha raccontato, ma la mamma ce l’ha ripetuto tante volte. Lo ripeteva perché – diceva –“voglio che vi ricordiate”. Per educarci insomma».
Personalmente durante l’udienza il 3 settembre 1978 ai fedeli della diocesi di Belluno confermi l’esperienza della povertà affrontata dalla tua famiglia: «È stato ricordato dai giornali, anche troppo forse, chela mia famiglia era povera. Posso confermarvi che durante l’anno dell’invasione ho patito veramente la fame, e anche dopo; almeno sarò capace di capire i problemi di chi ha fame!».
Hai un bel caratterino e da patriarca di Venezia confesserai: «Anch’io ero un terremoto in casa, ho preso 7 in condotta a scuola… e tuttavia ne è venuto fuori un Patriarca!». Ed ecco un fioretto della tua vivacità: «Promosso alla terza elementare, la maestra domanda ad albino di prestare il libro di seconda ad un ragazzo povero. Terminato l’anno scolastico, Albino alla vecchia maestra chiese la restituzione del suo testo. Lei evase la domanda: già, un libro vecchio, ormai usato per due anni, che poteva valere? Poteva avere ragione, ma allora, non eravamo ancora entrati nell’epoca del consumismo ed Albino era un tipo preciso, giusto ed obiettivo nel giudizio: «Sei una ladra, allora!». Lei, ladra non era per così poco, poi a quei tempi l’autorità era sempre onesta, quindi era illecito giudicarla e Albino fu condannato dai genitori, cioè dalla madre, che era severa» (cf o. c., p. 18)
Il 26 settembre1919 il vescovo Mons. Giosuè Cattarossi ti conferisce il sacramento della Cresima.
3. A 11 anni anche con il suggerimento del parroco di Canale D. Filippo Carli e il benestare di papà Giovanni, sollecitato dalla tua buona e santa mamma Bortola, entri nel seminario di Feltre per i cinque anni di ginnasio e continui gli studi di teologia in quello Gregoriano di Belluno. Le tue vacanze sono ricordata da Edoardo con queste parole: «A Pasqua per una settimana e alla fine di giugno era con noi. Durante le vacanze la giornata era frazionata tra chiesa, studio e anche lavoro, perché papà d’estate era fuori e la paga di lui serviva per i libri, e per le rette. Per vivere ci aiutavamo tenendo due mucche, lavorando i campicelli e Albino interveniva, in questa stagione, falciando il foraggio. Si portava anche il libro sul prato. Sempre vestito da seminarista e poi chierico, lavorava e falciava, con la veste. I villeggianti non disturbavano: pochi erano allora, ora sono un’invasione». Da patriarca di Venezia ai seminaristi della Serenissima ricorderai queste esperienze estive e la paterna figura del tuo parroco: «Arrivati in paese, si andava a salutarlo nel suo ufficio. Ho ancora presente quanto, nel prendere atto dei nostri risultati scolastici, egli fosse delicato e attento a non scoraggiare chi era stato rimandato in qualche materia e a non far ringalluzzire chi era promosso con alti voti. «Il Signore – diceva – non dona tutto a tutti e, se chiude una porta di qua, apre una finestra di là. Ciò che conta, è appunto il buon spirito, la corrispondenza alla grazia di Dio. Da bravi! Prendete nei primi giorni un po’ di riposo, poi ci metteremo insieme a far qualcosa!». Passata la prima settimana, ciascuno di noi si trovava ormai, in proporzione dell’età e delle attitudini, impegnato: istruzioni e prove di cerimonie, di canto, di recitazione ai chierichetti, ai cantori, alla filodrammatica; preparazione dei nostri compagni più piccoli agli esami di ammissione o di riparazione; catechismo ai fanciulli, servizio liturgico ai sacerdoti villeggianti, acqua rinnovata ogni giorno ai fiori di tutti gli altari; supplire il sagrestano assente per lavori di campagna con altri servizi di occasione; ecco ciò che doveva fare un drappello di seminaristi, che per tre mesi, passando da casa a chiesa, da canonica a sala parrocchiale, dava l’immagine di un ronzio di api attorno un alveare» (cf o. c, p26). Così trascorri le tue vacanze familiari tra archivio di biblioteca, rilegatura di libri, filodrammatica, filatelia, dattilografia, ecc. Ricordi i consigli del tuo pievano circa la lettura: «Accortosi che avevo la passione di leggere, trepidò per la mia vocazione: «Senti – disse – son contento che tu legga, ma voglio che i libri li prenda solo in canonica». Non mi fu difficile ubbidire: la biblioteca circolante possedeva una collezione discreta di romanzi: c’erano anche Verne, Salgari Mini, libri di viaggi e non chiedevo altro. Dopo un po’ di tempo, ecco il parroco preoccupato di nuovo: «Sono libri permessi, lo so, ma tu leggi troppo, rischi di perder il buon spirito! Leggi anche vite di santi e sii più moderato!». Ma evidentemente non era ancora tranquillo e una sera, entrando nel suo ufficio, vediamo noi seminaristi, sul tavolo, una pila di grossi volumi, nuovissimi, l’Enciclopedia dei ragazzi, nella prima edizione Mondadori. c dice: «Li ho fatti venire per voi; c’è dentro un po’ di tutto: il sunto di libri famosi, novelle, ma anche cose più serie: scienze naturali e fisiche, storia, geografia e religione. Ripeto: sono per voi, ma vorrei che li leggeste senza troppa fretta, con una lettura che sia metà studio e metà svago, e più costruttiva dei soliti libri di avventure». Con i volumi dell’Enciclopedia, vennero le riviste serie; ricordo, tra l’altro: «Le Missioni della Compagnia di Gesù», i «Pro-famiglia», «Le Vie d’Italia».
Negli anni del liceo con lui fai l’apprendistato di giornalista, scrivendo per il bollettino parrocchiale.
Tu gli presenti il tuo articolo e ne ricevi una lezione di sapienza comunicativa:
«Avevo finito la seconda liceo, ne venne fuori, si piò immaginare, un pistolotto lungo, pieno di fiori letterari. Lo lesse con calma, lo posò sul tavolo con calma, studiò, fiutando tabacco, la risposta e disse: «È scritto, ma sa di predica ed è troppo lungo e difficile. Pensa che lo deve leggere quella vecchietta, sai? che sta sua in cima al paese. Te la immagini, povera vecchia, con gli occhiali sul naso e le mani tremanti, davanti a queste parole irte di ismi, che ci hai messo e a questi periodi così lunghi? Provati di nuovo, ma a capo spesso, fa periodi corti con idee semplici, vestite di immagini ed esposte con parole facilissime. E pensa alla vecchietta!». E volle che leggessi più volte le «Mie prigioni» per divezzarmi dal periodare ricercato. «Il Pellico, quello sì che scrive semplice, affettivo, immediato! Quello è lo stile per il popolo». Quanto gli debbo. Chiedo perdono se ho parlato troppo di lui e di me».
Il dialogo continua con il tuo parroco continua anche durante i tuoi studi di teologia: «Durante le vacanze di teologia mi regalò via via la Somma di S. Tommaso, ed altri libri sodi, ma temo di avergli procurato in quel periodo qualche nuova apprensione, perché, pur esortandomi a studiare, più di una volta trovò modo di far cadere il discorso su Doellinger, Rena e Passaglia: «Bravi – diceva – ma si son persi per la troppa teologia: troppo teologi e troppo poco pastori d’anime! Noi, bisogna, invece, che capovolgiamo: la cultura teologica dobbiamo metterla a servizio della pastorale!» (cf o. c., p. 29).
Ti farà piacere se diamo uno sguardo alla tua pagella dell’anno 1926, quarta ginnasio: religione 8,italiano 7, latino 8, greco 8, francese 7, geografia 8, storia 8, aritmetica 8, e poi a quella dell’anno 1927, quinta ginnasio: religione 8, italiano 7 I/2, latino 7 ½, greco 7 ½, francese 7, geografia 10, storia 10, aritmetica 7.
Il tuo docente Mons. Giulio Gaio esprime questo giudizio: «Albino era davvero preparato a scuola. I suoi temi raggiungevano le 12 pagine, lo stile era brioso e lasciava emergere capacità di osservazioni e carattere riflessivo. Dai suoi elaborati traspariva un grado di maturità non comune. Era un divoratore di libri alla ricerca di nuove pubblicazioni. Tradiva amore al giornalismo, fin da quegli anni. In Albino mi colpì la grande intelligenza associata alla modestia, pareva che non avesse coscienza delle sue doti. Si distingueva per le sue battute venate di umorismo istintivo, fatto di intuizioni psicologiche acutissime. Non credo che abbia mai avuto in quegli anni alcuna crisi spirituale».
Il tuo compagno di classe D. Costante racconta della vostra passione per il canto: «Era vivace di compagnia, si discuteva volentieri, si chiacchierava. Ricordo, mi pare fosse in seconda liceo, avevamo formato una “Schola Cantorum” che eseguiva pezzi a più voci… pezzi notevoli… e si cantava, di sera dopo cena, con gusto. Mi pare ancora di vederlo, Albino, cantare contento e felice, con quella sua piega caratteristica della bocca, che scherzosamente prendevamo in giro».
Non manca il ricordo di qualche marachella giovanile: «Una volta andavamo verso Bolzano bellunese, in periferia di Belluno, verso la metà di giugno, sotto esami. Ad certo momento vediamo una stalla in fiamme: “il fuoco… il fuoco”. Io per primo entro a slegare le bestie e subito dietro, pieno di coraggio, Albino. Siamo riusciti a salvarle tutte. Però siamo tornati al seminario con ritardo, verso le nove di sera; e venne una ramanzina del vice rettore Don Mario Coletti. Spiegata la situazione tutto si risolse. Poi per alcuni giorni, ogni sera, arrivava una cesta di ciliegie. Il contadino voleva ringraziare». (cf o. c., p. 35)
Nel cammino verso il sacerdozio hai la tentazione di entrare nella Compagnia di Gesù come altri due tuoi compagni, dei quali P. Roberto Busa che più tardi applicherà l’informatica all’analisi linguistica delle opere di S. Tommaso d’Aquino, ma la tua richiesta non è accolta. Le ultime tappe sono il suddiaconato nell’anno 1934 e il diaconato il 2 febbraio 1935. Finalmente il 7 luglio 1935 il vescovo di Belluno Mons. Giosuè Cattarossi ti ordina sacerdote.
Il periodico parrocchiale fa la cronaca dello storico avvenimento:
« Uno dei suoi figli, don Albino Luciani, di Pieve, sale all’altare del Signore per celebrare il Divino Sacrificio. Egli veniva consacrato sacerdote il giorno 7 dal nostro vescovo nella chiesa S. Pietro in Belluno e con lui erano pure ordinati nove chierici all’ordine del Suddiaconato e di questi nove, sette sono della nostra diocesi. Alla commovente e magnifica funzione era presenti i genitori, i parenti e gli amici di don Albino. Nel pomeriggio alle ore quattro un lungo corteo di popolo, preceduto dalla banda dei pompieri, andava incontro al novello Levita. Egli giunse e venne accolto, con gioia e con dimostrazioni d’affetto, da parte del paese che lo vide nascere e crescere. Entrò nella sua bella chiesa ripiena di popolo che lo attendeva esultante, per ringraziare il buon Dio d’averlo chiamato a diventare suo ministro. L’indomani la Prima Messa. Per un popolo, che ha tradizioni religiose, è, la Prima Messa, un avvenimento dei più lieti. La nuova tosto si diffonde e apporta nei cuori un senso di conforto. Gode il paese che diede i natali al nuovo sacerdote e prova una legittima soddisfazione, per aver dato alla diocesi un nuovo ministro di Cristo, che verrà a lavorare nella vigna del Signore, a fare del bene alle nostre parrocchie, dove la mese è abbondante e gli operai sono pochi. La popolazione dimostrò praticamente come l’amore e la venerazione ai sacerdoti non sia venuta meno nei cuori. Essa concorse alla festa come fosse un giorno di domenica. La chiesa alle dieci era gremita di gente. Al mattino don Albino distribuì la Santa Comunione ad un bel numero di fedeli. Venne cantata la Messa “Te Deum” del Perosi. Mons. Santin tenne il discorso. Ricordò come, al suo posto, avrebbe dovuto essere il compianto arciprete don Filippo Carli: egli aveva coltivato la vocazione di don Albino e lo aveva accompagnato alle soglie del Santuario. Parlò del sacerdote svolgendo magnificamente i tre concetti: il sacerdote è chiamato, è un consacrato, è un immolato. Alla Messa seguì l’esposizione del Santissimo e venne cantato il Te Deum in ringraziamento al Buon Dio, che si degnò di colmare di tanto e di preziosi doni , il suo nuovo ministro. Nella sala parrocchiale si trovarono riuniti al festeggiato genitori, parenti, benefattori, amici sacerdoti e chierici. Al pranzo don Fioretto portò una nota di schietta e serena allegria, colla sua arte di musico fine ed arguto. Vennero lette lettere e telegrammi e presentati molti e utili regali. don Albino ricordò il suo amato don Filippo e porse a tutti ringraziamenti. la giornata si chiuse con una piccola accademia, dove tutti i rappresentanti dei vari rami dell’Azione Cattolica e anche altri, rivolsero parole di omaggio e di augurio a don Albino. Gli furono presentati i fioretti spirituali. Egli ringraziò e promise di ricordare tutti nelle sante messe. Festa così cara lasciò senza dubbio buona impressione e un buon ricordo in tutti quelli che vi presero parte, perché è proprio delle feste religiose, a differenza di quelle mondane, arrecare gioie e vigore nello spirito, per sostenere l’uomo nelle lotte della vita».
4. La prima nomina a vicario cooperatore della parrocchia di Canale d’Agordo è del 9 luglio 1935, ma il 18 dicembre 1935 sei trasferito come vicario cooperatore ad Agordo e ti viene affidato l’insegnamento della religione nell’istituto tecnico minerario della cittadina. In questo periodo sei collaboratore del parroco D. Luigi Cappello, fratello di P. Felice Cappello S.J., professore di diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana e ricordato come il santo confessore di Roma. Nel mese di luglio dell’anno 1937 ti raggiunge la nomina di vicerettore del seminario Gregoriano di Belluno e contemporaneamente ti viene affidato l’insegnamento della teologia dogmatica, del diritto canonico, della filosofia, della storia dell’arte e della sacra eloquenza. I superiori insistono per la tua formazione teologica e sia pure dispensato dalla frequenza ti iscrivi alla Pontificia Università Gregoriana dove consegui nel 1942 la licenza e nel 1947 la laurea in teologia discutendo la impegnativa tesi “L’origine dell’anima umana secondo Antonio Rosmini” e riportando la votazione di magna cum laude.
Durante la tragedia della seconda guerra mondiale e la lotta partigiana nell’agosto del 1944 interviene con coraggio e sottrai alla fucilazione alcuni cittadini sequestrati dai tedeschi
Negli anni della frequenza alla P.U.G. ti segue con affetto il P. Felice Cappello S.J., il maestro di diritto canonico e santo “confessore di Roma”, che è il fratello dell’arciprete di Agordo Mons. Luigi Cappello, il quale ti aveva ottenuto l’esonero dall’obbligo della frequenza alle lezioni. Ricorderai P. Felice Cappello sempre con venerazione: «Giovanissimo, egli aveva preso tre lauree, era professore universitario consultato da congregazioni romane, vescovi, ministri… di lui però non m’ha colpito la scienza, che conoscevo attraverso i suoi tanti scritti, ma la fedeltà alla regola… Dovendo uscire con lui dalla Gregoriana dove risiedeva, il padre Felice mi disse una volta: “Aspettami qui un momento, vado dal padre rettore perché legga queste tre lettere, prima che io le spedisca”….aveva ottant’anni, era quello che era, ma obbediva alla regola che voleva la posta controllata dal superiore».
La fiducia del vescovo Mons. Girolamo Bortignon nel 1947 ti affida l’ufficio di pro-cancelliere e segretario del Sinodo diocesano e poi nel 1949 ti nomina pro-vicario e responsabile dell’UCD. Nel campo della catechesi sei particolarmente attivo e così nel 1949 dai alle stampe il volumetto “Catechesi in briciole” dono prezioso per la formazione dei catechisti.
Nell’anno santo 1950 riesci a pubblicare la tua tesi di laurea e non ti nascondo che hai avuto un bel coraggio a confrontarti con il pensiero del beato Antonio Rosmini la cui opera profetica “Delle cinque piaghe della Chiesa” era stata messa nell’indice dei libri proibiti.
Il vescovo Mons. Gioacchino Muccin nel 1954 ti nomina vicario generale e tu continui la tua collaborazione al settimanale diocesano L’Amico del popolo sulle cui pagine affronti anche i temi dell’apostolato e dell’impegno politico dei cattolici. La tua vivacità nel campo della comunicazione ti suggerisce anche di avviare nel 1956 l’esperienza del cineforum.
5. La stima e la gratitudine dei tuoi vescovi ti segnalano all’attenzione di papa Giovanni XXIII. Mons. Girolamo Bortignon racconta: «Papa Giovanni una sera mi invitò a cena e lì, parlando della situazione del Veneto… visto che restava libera la diocesi di Vittorio Veneto, mi chiese se avevo da consigliargli qualche bravo parroco di Padova. Al che, io dissi: “Di Padova no, ma c’è un giovane prete bellunese, che sicuramente merita di diventare vescovo… Dal 1944 lo ebbi con me, ed era senz’altro uno dei migliori miei collaboratori”». Così il papa del futuro Concilio Vaticano II il 15 dicembre 1958 ti nomina pastore della diocesi di Vittorio Veneto e il 27 dicembre 1958 a Roma nella basilica di S. Pietro ti consacra vescovo. Nella solenne celebrazione sono al fianco del papa i vescovi Gioacchino Muccin e Girolamo Bortignon, tuoi amici.
L’11 gennaio 1959 inizi il decennio di episcopato nella diocesi di Vittorio Veneto e al tuo arrivo, dopo aver baciato la terra, ti presenti con queste semplici parole: «Appena designato vostro vescovo, ho pensato che il Signore venisse attuando anche con me un suo vecchio sistema: certe cose, scriverle no sul bronzo o sul marmo, ma addirittura sulla polvere, affinché, se la scrittura resta, non scompaginata o dispersa dal vento, risulti chiaro che il merito è tutto e solo di Dio. Io sono la polvere; la insigne dignità episcopale e la diocesi di Vittorio Veneto sono le belle cose che Dio si è degnato di scrivere su me; se un po’ di bene verrà fuori da questa scrittura, è chiaro fin da adesso, che sarà tutto merito della grazia e della misericordia del Signore».
Rimani a nella diocesi di Vittorio Veneto sino al 15 dicembre 1969 quando il papa Paolo VI ti promuove patriarca di Venezia. In questi dieci anni vivi l’esperienza del Concilio Vaticano II e la tua pastorale è illuminata dai documenti conciliari la cui conoscenza proponi con il tuo vivace stile comunicativo ma il cui spirito tu personalmente vivi e vuoi trasmettere ai sacerdoti e al popolo.
La tua semplicità ti sostiene anche nell’affrontare situazioni difficili: appena arrivato in diocesi prendi le difese dei mezzadri vessati dai proprietari terrieri e li tuteli attraverso la CISL. Nei confronti dei sacerdoti esprimi sentimenti di fraterna stima: «A me basta che i miei sacerdoti e fedeli obbediscano al vescovo, preghino per il vescovo, lo aiutino con consiglio disinteressato, perché anche il vescovo ha bisogno di aiuto».
Il tuo segretario d. Arrigo Gobbo ricorda il tuo arrivo in città e la tua predilezione per la sobrietà e la povertà: «È arrivato in diocesi col solo corredo personale e la biblioteca. Non possedeva la televisione, che accettò in regalo per poter seguire il pellegrinaggio del papa Paolo VI in Terra Santa. I pasti erano di una frugalità estrema e non ricordo abbia fatto un solo periodo di ferie. Ho dovuto faticare non poco per fargli accettare in dono una nuova vettura, più confortevole, in sostituzione della “millecento”, orma consunta, regalatagli dalla diocesi al suo ingresso. Del denaro che riceveva se ne serviva per aiutare i poveri ed anche non pochi sacerdoti in difficoltà».
La tua attenzione per la formazione dei sacerdoti la esprimi anche nelle meditazioni del corso di esercizi spirituali alle quali dai il titolo “Il buon Samaritano”, Il vescovo Antonio Cunial, tuo successore, puntualizza il tuo sapiente magistero: «Egli, fino dagli anni della sua adolescenza, fu profondamente colpito dalla suprema e gioiosa realtà dell’amore di Dio e della grandezza della chiamata al sacerdozio. Durante il suo ministero pastorale a Vittorio Veneto e a Venezia moltiplicò gli incontri con i sacerdoti, li sostenne, e non solo moralmente, li guidò e incoraggiò nel lavoro apostolico, li visito con cuore di padre, in diocesi e nelle terre di missione. Nei discorsi, nelle omelie, nei ritiri spirituali, nei suoi scritti ritornò spesso sul tema del mistero sacerdotale. Egli sulla scorta del Concilio Vaticano II, affermò: «I presbiteri sono promossi al servizio di Cristo: Maestro, Sacerdote e Re, partecipando al Suo ministero, per il quale la Chiesa qui in terra è incessantemente edificata in Popolo di Dio. Promossi come? Attraverso un particolare Sacramento, per il quale… in virtù dello Spirito Santo sono marcati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo Capo.
Partecipano, pertanto, all’ufficio dell’unico Mediatore Cristo; sono strumenti vivi di Cristo per proseguire nel tempo la sua mirabile opera. Provvidenziali cooperatori dell’Ordine episcopale… costituiscono un solo presbiterio e una sola famiglia, di cui il Vescovo è il padre» (Il sacerdote e il seminaristi oggi, in Bollettino Ecclesiastico della Diocesi di Vittorio Veneto, Luglio 1969, pp. 227-228).
Egli invitò ogni presbitero a rifarsi al grande e dolce modello Cristo Gesù: «Per sentirsi a suo agio, nel suo giusto posto, e spinto di continuo ad essere veramente buono e santo, il sacerdote deve avere una specie di ritratto con cui potersi confrontare, di specchio in cui guardarsi spesso. Questo specchio è Cristo. Solo da Cristo, che è il sacerdote grande, scende la luce che illumina me, sacerdote piccolo. È sempre stato detto: ‘Sacerdos alter Christus’ e si deve dire ancora sia pure con precisi limiti e spiegazioni» (Cristo ideale del sacerdote, in Bollettino Ecclesiastico della Diocesi di Vittorio Veneto, ottobre 1968, p. 403).
E a proposito del tuo libro Mons. Cunial sottolinea: «Il contenuto del libro, riteniamo, interessa non solo i preti, ma anche i laici. Vi traspare sempre la sostanziosa dottrina, la scintillante arguzia, l’attenzione precipua ai problemi dei fratelli sacerdoti, l’infuocata fede dell’amatissimo Vescovo e Papa Luciani».
Mi piace riascoltare qualche passaggio della meditazione finale dal titolo “In attesa del suo ritorno”, nella quale tu commenti il passo della prima lettera di Pietro (1 Pt 4,7-11), e trascritta dalla registrazione magnetica:
« Siate prudenti. Ho già parlato della prudenza. Credo che sia eminentemente una virtù da parroci, una virtù pastorale. Diceva san Giacomo: Sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare (Gv 1,19).Io quasi vorrei correggere san Giacomo: pronti ad ascoltare senz’altro. Diceva quel filosofo greco che il Signore ci ha dato due orecchie e una bocca sola, due orecchie perché…, ma una bocca sola per parlare.
Ma, dicevo, correggere san Giacomo nel senso che, sì, bisogna ascoltare, però se si tratta di ascoltare e di creder a quello che dicono, allora bisogna esser molto cauti. I medioevali, gli scolastici dicevano: Concede parum, distingeu frequenter, nega semper; distingue frequenter: un po’ di diffidenza. Non credete a tutte le chiacchiere che si fanno in giro, Abbiamo tanta prudenza; non si è mai troppo prudenti!
Dedicatevi alla preghiera. Vedete che anche san Pietro è d’accordo con san Paolo in questo. Bisogna pregare sempre, senza mai stancarsi. Pregare senza interruzione. Questo significa: vigilate in orationibus!
Vigilare vuol dire star su di notte. È quello che abbiamo detto prima sulla necessità della preghiera, che viene riconfermato ancora una volta. Non partite dagli esercizi, senza promettere: Signore, voglio proprio dedicarmi alla preghiera, fare della buona preghiera. Non si misura col metro. Non ho mai visto il Signore dipinto col metro in mano per misurare la lunghezza delle nostre preghiere. Ma la preghiera ben fatta, quella è necessaria.
Soprattutto conservate tra di voi una grande carità. Soprattutto, ante omnia. Era presente anche san Pietro quando Gesù ha detto: Hoc est praeceptum meum, questo è il mio comando: volersi bene, compatirsi, perdonarsi. Da questo conosceranno che siete miei discepoli, da questo: se vi vorrete bene gli uni gli altri. Compatire, sopportare, amare, cf Gv 13, 35 e 15,12).
Vi faccio notare una cosa: nel testo latino dice: continuam caritatem. Allroa non è la carità grande, eccezionale, eroica. No, è la carità delle piccole cose: sopportarsi vicendevolmente in casa, sopportare i seccatori, abituarsi alle piccole molestie. (…)
Santa Teresa di Gesù Bambino, in quel meraviglioso capitolo sulla carità, scrive: Viene una consorella, mi domanda il pennello, mi domanda il temperino: io so già che non me lo restituirà più. Mi verrebbe da dire: Te lo regalo. Invece con tutta naturalezza lo presto, anche se sono sicura che non ritornerà. Faccio già un atto di rinuncia…
Quanti libri io ho prestato, che non sono più ritornati! Qualche volta mi rovinano anche l’opera, perché sono cinque volumi e un volume non è più tornato. Bisogna avere tanta pazienza, essere hospitales in questo senso.
E quando si è nella stessa casa. Io ero in seminario, insegnante. Quelli della stana vicina accedevano la radio, io dovevo studiare, e con la radio che strepita non si può farlo. C’è anche questa ospitalità. Non si può non guardare a queste cose. Ci sarebbero anche tanti altri esempi… Stiamo attenti a queste piccole cose! (…)
Credetemi, bisogna aver carità. Se fossi vescovo io! Vorrei proprio che foste vescovi per sentire che gusto c’è. Bisogna essere delicati.
Succede che mormorano anche di voi, a volte, e allora non bisogna perdere le staffe. Ricordate come dice il salmo, non ricordo più se nella nuova o nella vecchia traduzione, ma c’è la parola novacula acuta (Sal 51,4). Non vi ricordate? Mi pare voglia dire forbici o rasoio. Rasoio, un rasoio molto tagliente. Il salmista dice: Mi hanno tagliato la barba con un rasoio; un ebraismo che vuol dire: mi hanno tagliato i panni addosso. Tagliar la barba a uno, mandarlo in giro con metà barba, è brutto, poveretto, è sfigurato: come mormorare di lui e calunniarlo.
Succede così, a volte, ci calunniano. Lasciate passare un po’ di tempo, la barba ricresce e farete ancora la vostra bella figura. C’è chi passa dei brutti momenti perché qualcuno ha detto male di lui, l’ha messo in cattiva luce. Dopo due anni nessuno se ne ricorda più, ha di nuovo la sua fama, il suo prestigio. Aspettando, le cose si mettono a posto da sole.
Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta (ma in greco è carisma), mettendola a servizio degli altri. C’è anche la parabola dei talenti. In questo mondo, mi pare, talenti ne abbiamo tutti, no? Chi è bravo a predicare, chi è bravo a confessare, chi ha tanta salute, chi sa dare dei buoni suggerimenti, chi ha una bella cultura. Bisogna cercare di mettere tutto a profitto delle anime. Noi dovremmo essere lieti, se valiamo qualche cosa. Dite: Se posso, senza tradire i miei doveri, sono qui, faccio volentieri. Soltanto cercate di non abusare di quelli che si offrono, e di capire che qualche volta non potrebbero e lo fanno solo per buon cuore.
Io ero professore in seminario e venivano i parroci del vicinato: Voialtri che non avete niente da fare, venite fuori un po’ a confessare. Niente da fare! Vieni qui tu a veder: le lezioni bisogna prepararle, e poi anche qui ci danno sempre del lavoro in più, a volte anche la curia. Credetemi, se vi dico che non posso, vuol dire che sono veramente impegnato.
Quelli che sono in seminario non hanno mai niente da fare, quelli che sono in collegio non hanno mai niente da fare. E’ una lima, invece, la vita del seminario. Non c’è solo il grosso lavoro della parrocchia, anche quello è un lavoro che costa fatica. Bisogna saperlo valutare.
Voi siete parroci e molti certamente avete le suore per l’asilo. Qualche superiora viene dal vescovo, perché in certe cose, magari rarissime, deve intervenire il vescovo. Ma prima di essere vescovo sono stato vicario e anche delegatus monialium, così lo chiamano mi pare, e sentivo le lamentele. Far la scuola materna, mettiamo quaranta bambini, a volte non hanno neanche la ragazza, la domestica, bisogna anche accompagnarli ai servizi, è fatica, sapete, è una preoccupazione continua, possono farsi del male ad ogni momento. Sembra niente, ma è una fatica grande. E il parroco dice: Faccia questo, faccia quest’altro. devono preparare un’accademia per il parroco, un trattenimento per le Missioni… Un’accademia di bambini, anche solo insegnare qualche canto ai piccoli, vi assicuro che non è un compito facile.
Ho sentito una volta in una colonia di Oderzo un coro di bambini austriaci o tedeschi: non sol come abbiano fatto, loro la musica l’hanno nel sangue, si dice, hanno eseguito canti a due voci, bambini eh, sentire che bravi! Io ho pensato: Dio sa quanto tempo ci hanno messo ad istruirli. Non è una cosa semplice. Bisogna mettersi un po’ nei panni degli altri. Se le suore dicono che non possono, vuol dire proprio che non possono. Ci sarà anche qualche superiora pigra, che non vuole scomodarsi, intendiamoci, ma qualche volta bisognerebbe proprio vedere se realmente… E poi non si può pretendere più di tanto. Dunque la carità a servizio degli altri.
Chi parla, lo faccia come con parole di Dio. È un richiamo alla serietà della parola. Dice san Bernardo: Nelle labbra degli altri sunt nugae, sono sciocchezze, cose da poco; ma se le diciamo noi cambiano aspetto, non sono più cose trascurabili. Certe facezie, certe allusioni equivoche, possono fare una brutta impressione. Quindi bisogna aver molto riguardo nel parlare. Si quis loquitur, quasi sermones Dei: le parole del sacerdote dovrebbero essere sempre parola di Dio, parole di verità, di speranza, d’incoraggiamento.
Una volta non credevo, ma anche persone oste in alto hanno i loro scoraggiamenti, e una buon parola fa bene a tutti, quindi bisogna saperla dire. Qualcuno poi ha anche il dono di essere persuasivo, e qualche altro ha perfino il dono di far ridere. Non è una cattiva cosa. Se c’è ironia cattiva no, assolutamente no, la mordacità non va assolutamente. (Ti soffermi a denunciare la cattiva mordacità di Voltaire)… Un prete troppo mordace, questo no. Invece uno che è allegro, a volte se ne ha quasi il rimpianto. Si dice: Se fosse qui, ci terrebbe allegri. Qualche volta ci vuole anche questo.
(…) E qui ci vuole una parola anche sul posto che ci viene affidato, sull’amore che bisogna avere a questo posto, e sulla necessità di superare gli scoraggiamenti.
Il posto si deve amarlo, ma non troppo, ma amarlo se il Signore ce l’ha affidato. Sapete che cosa diceva Dalla Costa? Lo raccontava mons. Soche, vescovo di Reggio Emilia, che era andato con tutti i parroci vicentini a Schio, a congratularsi con lui che era stato eletto vescovo di Padova. Dalla Costa si è fatto serio e poi ha detto: Vi devo dire una cosa. Santa Madre Chiesa non ha prigioni pe ri suoi sacerdoti, però quando vuole castigare qualcuno, ha l’episcopato pronto. Non tutti la pensano così.
Qualche volta il posto può venire a noia: capita a tutti. La situazione si fa pesante, e si pensa che cambiando luogo tutto possa essere più facile. No, non è mica vero. Abbandonata una croce, ne troverete un’altra. Se proprio volete, esponete ai superiori le vostre difficoltà. Ma anche i vescovi spesso non sanno più cosa fare, dove mettere un soggetto che, appena cambiato, vuole cambiare di nuovo. Il Signore vuole che ci santifichiamo dove ci ha posti, e che confidiamo nella sua provvidenza… Amare il posto, dicevo, ma non attaccarsi troppo; di mood che se il vescovo dice: Avrei piacere che3 tu andassi in quell’altra parrocchia, si sia pronti ad andarvi. Sempre col diritto di fare le proprie riserve, perché c’è tanto di canone. Quando la necessità della Chiesa lo richiede, il vescovo piò anche comandare e il prete deve obbedire.
(…) Domandiamo alla Madonna, Stella del mare, che illumini il nostro cammino, affinché possiamo sempre essere dei veri e santi sacerdoti.
L’altro giorno ho letto in un libro questa frase: Vuoi essere felice e avere la pace? Fatti sacerdote e siilo fino in fondo. Vuoi essere infelice, vuoi sentire sopra di te quasi il peso di una montagna che ti opprime? Fatti sacerdote, e siilo a metà. Il sacerdozio si gusta se è vissuto fino in fondo, nella bontà e nei sacrifici. Quanto invece uno è mezzo e messo, un po’ sacerdote e un po’ (mestierante!), allor ail sacerdozio non porta più le consolazioni che gli sono inerenti, ma veramente diventa un peso insopportabile.
Io vi auguro che, con l’aiuto della Madonna, il vostro sacerdozio sia la cosa più amata della vostra vita, sia la vostra consolazione, siate sempre contenti di essere sacerdoti, per tutta la vita, e la gioia più grande possiate provarla quando il Signore verrà ad incontrarvi». ( cf Il Buon Samaritano, Edizioni Messaggero, Padova 1980, pp. 359-372).
La tua delicatezza nei confronti dei sacerdoti è raccontata da d. Giovanni De nardo: «Pasqua 1966. Sono in Casa Esercizi, con il morale a pezzi. Qualche giorno prima c’era stato un chiaro responso medico: ricovero in sanatorio (ed era la seconda volta). Il vescovo sapeva tutto. Dopo il Pontificale di Pasqua, suona il citofono di Casa Esercizi. È il vescovo. “Don Giovanni, oggi sono solo: vuoi venire a farmi compagnia a pranzo?”. “Eccellenza, rispondo, sa che mi han detto che sono positivo!”. “Vieni su, non ti preoccupare”! Il riassunto del tuo incoraggiamento: “Coraggio! Anch’io sono stato due volte in sanatorio ed ora sono vescovo!”».
Non ti manca il coraggio di affrontare situazioni difficili come quella che nel 1966 si crea nella parrocchia di Montaner alla morte del parroco d. Giuseppe Faè. Alcuni fedeli non accettano la nomina di D. Giuseppe Gava da te fatta e insistono perché la parrocchia sia affidata a D. Antonio Botteon. I ribelli organizzano il ricorso a Roma nella speranza di essere ascoltati dal papa Paolo VI. Tu decidi di chiudere il caso e il 12 settembre 1967 arrivi a Montaner e, scortato dai carabinier, entri in chiesa, prelevi dal tabernacolo la pisside dell’Eucaristia e emetti il decreto di interdetto alla parrocchia ribelle.
Fai respirare alla tua diocesi lo spirito ecumenico aprendo una missione diocesana in Burundi che tu visiti dal 16 agosto al 2 settembre 1966.
Dopo l’improvvisa morte del card. Giovanni Urbani il 15 dicembre 1969 il papa Paolo VI ti nomina patriarca di Venezia.
Il 1° febbraio 1970 nel palazzo municipale ti viene conferita la cittadinanza onoraria di Vittorio Veneto.
Nel saluto di addio alla diocesi durante la celebrazione in cattedrale l’11 febbraio 1970 ti confessi: “Mi sono sempre sforzato di essere, in questi 11 anni, che sono stato con voi, il ‘postino’ di Dio. Vi ho esortato ad essere innamorati di Dio, e leggerne “la Parola” e mettere in pratica quanto vi chiede».
Il 3 settembre 1978 ricevi nella sala Clementina in udienza i fedeli di Vittorio Veneto, di Belluno e di Venezia e col sorriso dici loro: «Non è che non abbia amato Venezia… ma Vittorio Veneto… sapete come si dice: Il primo amore non si scorda mai!».
6. Alla morte del card. Giovanni Urbani, patriarca di Venezia, il papa Paolo VI ti chiama a succedergli sulla cattedra di San Marco. Nella prima omelia l’8 febbraio 1970 tenuta nello splendore della basilica bizantina con semplicità manifesti la tua umiltà richiamando il tema a te caro della “polvere”: «Se non mi scoraggio di fronte a un’impresa che fa tremare le vene e i polsi, gli è perché confido nell’aiuto che il Signore concede anche a chi vale poco. Dio, infatti, certe cose grandi ama talvolta scriverle non sul bronzo o sul marmo, ma addirittura sulla polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata o dispersa dal vento, risulti chiaro che il merito è tutto e solo di Dio. Sono io la polvere: l’ufficio di patriarca e la diocesi di Venezia sono le grandi cose unite alla polvere; se un po’ di bene verrà fuori da questa unione, è chiaro che sarà tutto merito della misericordia del Signore». Non perdi altro tempo e già il 25 ottobre 1970 inizi la visita pastorale. Prediligi il dialogo utilizzando tutti i mezzi della comunicazione (omelie e lettere) che sia il quotidiano veneziano Il Gazzettino il settimanale diocesano La voce di San Marco e poi Gente veneta e ancora il Messaggero di Sant’Antonio. Con la tua carità pastorale affronti la difficile situazione del post-concilio in cui ci sono pericolose correnti ideologiche: la scelta socialista delle ACLI, il compromesso storico, il terrorismo, il dissenso cattolico, lo scontro sul divorzio. Sei a fianco degli operai di Marghera nelle loro giuste rivendicazioni e auspichi anche un contratto nazionale per il sacrestani a servizio delle parrocchie.
Negli anni veneziani intervieni a tre assemblee generali ordinarie del Sinodo dei vescovi nelle quali si affrontano questi temi: “Il sacerdozio ministeriale e la giustizia del mondo” (28 giugno-5 settembre 1971); “L’evangelizzazione nel mondo moderno” (27 settembre-26 ottobre 1974); “La catechesi nel nostro tempo” (30 seettembre-29 ottobre 1977). Non mancano i viaggi a carattere pastorale e missionari: Svizzera (12-14 giugno 1971); Germania (18 maggio 1975); Brasile (6-21 novembre 1975); Spalato-Jugoslavia (10-13 settembre 1976).
Sulle pagine dei giornali viene recuperata la foto del 16 settembre 1972 che documenta il gesto profetico di San Paolo VI. Nell’ultimo saluto a piazza San Marco il pontefice si toglie la stola pontificale e la mette sulle tue spalle. Tu ricordando quel gesto il 27 agosto 1978 con il tuo linguaggio immediato dicevi ai fedeli in piazza San Pietro: «M’ha fatto diventare tutto rosso, davanti a 20.000 persone; s’è levata la stola a me l’ha messa sulle spalle, io non sono mai diventato così rosso». Lo stesso Paolo VI il 5 marzo 1973 ti conferisce la dignità di cardinale.
Non puoi dimenticare il tuo incontro con Sr Lucia dos Santos, la veggente di Fatima. Nel luglio 1977 guidi un pellegrinaggio a Cova da Iria e poi la incontri al convento di Coimbra. Circa il dialogo avuto da te con la religiosa il tuo segretario D. Diego Lorenzi riferisce la tua viva impressione e le tue parole: «La suora è piccolina e vispa, e abbastanza chiacchierina… parlando, rivela grande sensibilità per tutto quel che riguarda la Chiesa d’oggi con i suoi problemi acuti…; la piccola monaca insisteva con me sulla necessità di avere oggi cristiani e specialmente seminaristi, novizi e novizie, decisi sul serio ad essere di Dio, senza riserve. Con tanta energia e convinzione m’ha parlato di suore, di preti e cristiani dalla testa ferma. Radicale come i santi: ou tudo ai nada, o tutto o niente, se si vuol esser di Dio sul serio».
A Venezia nel lavoro pastorale metti a frutto la tua passione di giornalista e i tuoi interventi (omelie, articoli, ecc.) sono sulle pagine della Rivista Diocesana dio Venezia, dei settimanali diocesani La voce di San Marco e Gente Veneta, del quotidiano Il Gazzettino, della rivista Il Messaggero di S. Antonio, e della rivista Prospettive nel mondo. A chi ti domanda perché dai la tua collaborazione anche alla rivista antoniana di Padova tu rispondi: «Quando predico in S. Marco mi ascoltano cento, centocinquanta, massino duecento fedeli: la metà sono turisti che non capiscono l’italiano, l’altra metà adorabili ma già convinte vecchiette. Il direttore del «messaggero di S. Antonio» mi ha detto: moltiplichi i suoi ascoltatori per mille e scriva per noi. Mi ha convinto».
Le tue lettere indirizzate a personaggi storici (da Luca, Quintiliano, Paolo Diacono, Petrarca. Bonaventura da Bagnoregio, S. Bernardo di Chiaravalle, Carlo Goldoni, Gioacchino Belli, Trilussa, ecc.) ti permettono di dialogare su diversi problemi di attualità con sapiente ironia e linguaggio popolare. Nel 1976 saranno raccolte in un volume dal titolo “Illustrissimi” che sarà un grande successo editoriale.
Da questo volume stralcio la lettera indirizzata al commediografo Carlo Goldoni (1707-1793) dal titolo:«Le femministe e la barba di santa Vilgefortis».
«Caro Goldoni,
ho avuto occasione di vedere a fine agosto di quest’anno (1974) i vostri « Rusteghi» e, a poco distanza, «La bisbetica domata» di Shakespeare. Senza che ci pensassi, spontaneamente mi s’è imposto il contrasto: «antifemminista» Shakespeare, «femminista» Voi.
La «bisbetica» è Caterina, figlia di un riccone di Padova. Iraconda, stizzosa, insofferente di tutto e di tutti, manda all’aria i mobili delle stanze, fa scappare la gente di casa, ha perfino la gentile usanza di mordere, nessuno la vuole in sposa.
Ma sopravviene da Verona Petruccio, cui fa gola la ricchissima dote di Caterina. Eccolo pretendente alla sua mano; essa lo sdegna, ma lui, furbo e imperturbabile, le fa una corte sapiente: quanto più essa lo maltratta, tanto più egli dichiara di trovarla dolce e gentile.
Si fa il matrimonio: Petruccio porta la posa a Verona, ma qui le parti si invertono. Petruccio, col pretesto che i cibi ed il letto non sono degni della sposa, in mezzo a mille moine e proteste di affetto, non permette né che essa mangi né che dorma.
Senza cibo e senza sonno Caterina è «domata»; quando al marito piaccia, essa è disposta a chiamare sole la luna e viceversa, a dire che è sereno quando piove e viceversa; al padre, alla sorella, al cognato e al pubblico dichiara che i doveri di una moglie sono: obbedire, servire il marito e dichiararsi sempre del suo parer
Ne «I Rusteghi» il procedimento è inverso: quattro mariti partono «domatori» e arrivano piuttosto «domati».
Le loro spose? «Che le staga in casa, che no le veda nissun, che n sappia gnente!».
La figlia di Lunardo, uno dei quattro? Il giorno del matrimonio né sa di aver un fidanzato né l’ha mai visto: tutto è combinato in gran segreto dai padri degli sposi. La sposina si lamenta con la matrigna: «E mi, poverazza, che no vago mai fora de la porta? E nol vol mo gnanca che vaga un fià al balcon»!
Ma ecco le mogli partire alla riscossa, con in testa l’intraprendente «sora Felice», la quale, dopo aver scoperto e propalato il segreto dell’imminente matrimonio e aver procurato ai «rusteghi» una grossa sorpresa, vince le loro ultime resistenze con una arringa degna di un avvocato, che li fa sbalordire.
I quattro, vinti più che convinti, devono confessare che le mogli e le figlie non vanno «domate><>, ma ascoltate: la parola, in quel caso, sei mariti non gliela danno, se la prendono le mogli stesse.
Fra la tesi di Shakespeare ed la vostra, caro Goldoni, preferisco la vostra: più umana, più giusta, più vicina alla realtà di allora e di oggi, anche se oggi il vostro «femminismo» appare palliduccio, dai vostri tempi in qua la donna, infatti, ne ha fatto delle conquiste!
Comunque in gran parte positive.
Ne «Le femmine puntigliose» voi avete riso sui salotti, «ove ghe xé donne co i cavalieri serventi che le sta dure impietrìe a farse adorar: chi ghe sospira intorno da una banda,chi se ghe insenocchia dall’altra, chi ghe sporze la sotto coppa, chi ghe tol su da terra el fazzoletto, chi ghe basa la man, chi le serrve de brazzo, chi ghe fa da segretario, chi da camerier…». Ebbene, oggi tutto questo non solo è scomparso, ma è scomparsa quasi del tutto la differenza tra le «signore» e le «popolane».
Il tempo e specialmente due guerre formidabili con susseguente «rimescolamento di carte» hanno cambiato la mentalità e la posizione sociale delle donne. Le ragazze non stanno più chiuse in casa: anche le più agiate studiano o si preparano in vista di un lavoro con cui guadagnarsi la vita. Ricevono magari ancora inchini e baciamano, ma in fretta: sanno che, in generale, devono contare solo su se stesse, bastare a se stesse come gli uomini e portare il proprio contributo di lavoro e di denaro alla famiglia.
Come ai vostri tempi, esse possiedono tesori di intuizione e di sentimento, ma oggi li devono orientare metà per farsi una famiglia, metà per farsi una posizione sociale e mantenerla.
Nelle vostre commedie le categorie femminili stanno sulle dita di una mano: nobildonne, «parone» borghesi, «masseree», «locandiere», «cameriere». Oggi non basta un vocabolario intero: commesse, studentesse, operaie, vetriniste, maestre, hostess, professoresse, infermiere, impiegate, medichesse, poliziotte, assistenti sociali, avvocatesse e su su in una schiera interminabile fino alle deputatesse e alle ministro di stato.
«La sa far de tutto» fate dire con orgoglio a Lunardo a proposito della figlia Lucietta. E intendete: calza, rammendi, ricamini, pietanzette, suonatine.
Oggi il lavoro della donna si estende a tutte le forme, anche a quelle che nei vostri tempi erano riservate ai soli uomini; oggi trovate le donne nelle competizioni politiche, nelle gare sportive e, spesso, in atteggiamento forte e scanzonato, che sdegna, o finge disdegnare, ogni manifestazione esterna di sentimento. Sotto, magari, il cuore sogna e piange come quello delle vostre Rosaure, Marine, Luciette e Colombine, ma fuori c’è per lo più la maschera dell’indifferenza.
A questo punto chiederete: «Ma tutto questo lo giudicate cene o male?».
In sé è bene, caro Goldoni; il male, semmai, risiede nel deterioramento in peggio dell’ambiente in cui le donne oggi si muovono e che insidia fortemente le loro sane convinzioni e la loro vita religiosa e morale. Il 26 luglio – ad esempio – i quotidiani italiani riferivano: ieri in una conferenza stampa la deputatessa N., propugnando la liberalizzazione dell’aborto, ha dichiarato:«Il diritto a vivere la propria sessualità è oggi limitato dal senso del peccato… c’è il diritto della donna a vivere la propria sessualità non solo nell’ambito di una famiglia e in vista di una famiglia».
Caro Goldoni, voi non siete stato quel che dicono un «bigotto», avete parlato poco di Dio e avete sparso perfino qualche pizzico d’ironia su certo clero; avvocato-drammaturgo, avete conosciuto il mondo e la vita. E quale vita! quella dei teatranti, della Venezia Settecento, della Corte di Luigi XVI.
Alla famiglia però, all’amore e fedeltà coniugale, alla dignità della donna – nonostante la innata vostra galanteria e la confessata attrattiva verso il «bel sesso» - ci credevate. La vostra «putta onorata», la«buona madre», la «figlia obbediente», la stessa «vedova scaltra» (scaltra sì, ma in vista di un onesto matrimonio) sarebbero arrossite, ascoltando la deputatessa succitata.
Era inaudito al vostro tempo che l’esercizio di una sessualità extrafamiliare venisse reclamato come diritto a nome di tutte le donne, sotto gli occhi di tutti, senza veli e reticenze. Inaudito anche che il peccato passasse come pura invenzione del «potere» per far rigar diritta la gente e togliere la libertà.
Le donne del vostro tempo, anche se peccavano ammettevano quasi tutte che, fuori di noi, un Dio – a nostro e non a suo vantaggio – poteva mettere leggi alle azioni umane. Oggi? Mi domando quante donne consentono alle tessi della deputatessa. Spero che non siano numerose, ma non lo so: se fossero numerose, allora, più che un’avanzata del «femminismo» avremmo un crollo della femminilità e dell’umanità.
Avete sentito la deputatessa: aborto liberalizzato e regolamentato pe rla promozione della donna.
Ma sarà vera promozione? Inchieste di medici giapponesi, inglesi e ungheresi su aborti, pur eseguiti setto il patrocinio della legge e in cliniche specializzate, rivelano che tali aborti sono sempre un trauma per la salute della donna, per i parti e i figli successivi. Psicologi e psichiatri, a loro volta, segnalano altre cattive conseguenze: queste, dicono, magari sonnecchiano nel subcosciente della donna che ha abortito, ma riemergono in seguito in tempo di crisi.
Non parliamo dell’aspetto morale: l’aborto, oltre che violare le leggi di Dio, va contro le aspirazioni più profonde della donna, turbandola fortemente.
In molti casi poi l’aborto, più che la donna, libera in realtà il suo partener, marito o no, da noie e seccature, permettendogli di dare corso ai suoi desideri sessuali senza assumere i relativi doveri: è un retrocedere, più che un avanzare, della donna nei confronti dell’uomo.
In materia di aborto, caro Goldoni, la deputatessa e le femministe hanno ggi dei potenti alleati.
«L’aborto regolamentato – dicono alcuni – è un male minore; impedirà gli aborti clandestini e la morte di parecchie giovani donne, vittime sinora delle 2praticone”.
Ma l’esperienza di altri paesi assicura che gli aborti clandestini non diminuiscono affatto col sopravvenire della legalizzazione, a meno che questa non permetta qualunque aborto. Il numero poi delle giovani vittime della clandestinità è spesso gonfiato a scopo di propaganda. «Posseggono l’aborto legalizzato altre nazioni civili; perché non l’Italia?».
Ribatto: se legalizzare l’aborto è un errore, perché errare anche noi? una malattia importata da fuori in Italia, per il fatto che è importata, non diventa salute, ma infezione o epidemia. In difesa dell’aborto comincia a correre un motivo anche più specioso: «Importante, dicono, è la 12a settimana.
Sì, perché quello è il momento delle due vite del feto nel seno materno.
Segue seconda parte
Foto Giovanni Paolo I, fonte Wikipedia