1994-2015. L’antimafia che non ha paura
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- Pubblicato Lunedì, 27 Aprile 2015 10:41
- Scritto da Michele Pesce
di Michele Pesce
Si è svolta la settimana scorsa a Bari la due giorni di eventi organizzata dall’Associazione Antimafie “Rita Atria” dal titolo “1994-2015. L’antimafia che non ha paura”.
L’Associazione, intitolata a Rita Atria, testimone di giustizia morta suicida nel luglio 1992, una settimana dopo il brutale assassinio del magistrato Paolo Borsellino con cui la stessa aveva collaborato, nasce a Milazzo, in provincia di Messina, nell’inverno del 1994, dall’iniziativa di due studentesse, Nadia Furnari e Santina Latella.
Sin dall’inizio, l’obiettivo è stato quello di promuovere la diffusione della cultura della legalità e di una coscienza antimafiosa e antifascista, allo scopo di sensibilizzare a queste tematiche tutti i cittadini. In questi 21 anni lo si è fatto raccogliendo le immagini delle stragi del 1992 di Capaci e via D’Amelio, custodite nella mente di tutti gli italiani che vissero il periodo della mafia stragista a cavallo tra gli anni ‘80 e i primi anni ‘90, e trasformadole da fotogrammi di dolore in azioni concrete.
La voglia di dare un senso a quella frase “Non li avete uccisi: le loro idee camminano sulle nostre gambe” ha fatto sì che si creasse una bella convergenza di intenti tale da far nascere e crescere un movimento partecipato, attivo ed autofinanziato, presente oggi con diversi presidi in altrettante città italiane, tra cui Roma, Palermo e, per l’appunto, Bari.
Tra i vari eventi organizzati nella due giorni barese, particolarmente significativo e ricco di spunti di riflessione è stato il convegno, tenutosi sabato 18 aprile nell’auditorium dell’Istituto Salesiano del Ss. Redentore in Via Martiri D'Otranto, dal titolo “Mafia e Stato: cosa è cambiato dalle stragi del '92".
Tra i relatori, moderati dall’ottimo Claudio Altini, membro del presidio di Bari, la Dott.ssa Franca Imbergamo, Sostituto Procuratore per la Direzione Nazionale Antimafia di Roma e responsabile del coordinamento indagini sulle stragi del ’92, Graziella Proto, direttrice della rivista “Le Siciliane-Casablanca” e membro della redazione del giornale di Pippo Fava "I Siciliani", e Gaetano Saffioti, imprenditore calabrese oggi testimone di giustizia. Presenti all’evento, inoltre, in rappresentanza delle istituzioni baresi e pugliesi, Pietro Petruzzelli, Assessore all’Ambiente e allo Sport del comune di Bari, e Onofrio Introna, Presidente del Consiglio Regionale.
«Seppur siano passati 23 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, oggi ancora si continua a cercare la verità». Ha esordito così Claudio Altini, portavoce del presidio barese dell’Associazione, per il quale «la memoria di quegli anni deve sì servire da stimolo per combattere la mafia, ma al ricordo dei morti devono aggiungersi delle azioni concrete poste in essere per preservare i vivi, quelli che come il pm Nino Di Matteo stanno continuando l’opera iniziata da Falcone e Borsellino».
«Le parole non bastano, c’è bisogno di riempire i contenuti vuoti di quotidianità e comportamenti» - ha proseguito Graziella Proto, secondo la quale «il silenzio è gravissimo, ma il non agire significa essere complici».
Lo sa bene anche il pm Franca Imbergamo, che nel 2002, a distanza di ben 24 anni, riuscì a far condannare all’ergastolo Tano Badalamenti per l’omicidio di Peppino Impastato: «Le associazioni antimafia e i cittadini devono interloquire con la Magistratura. La società civile non può pensare che i magistrati combattano da soli la mafia, soprattutto quando questa è all’interno delle istituzioni. Uno Stato deve riuscire a guardarsi allo specchio e ad autocurarsi».
Il Sostituto Procuratore, che lamenta a diverse latitudini un’inerzia da parte dei vari esecutivi nell’inasprire la legislazione antimafia, ha auspicato una diversa politica ed una maggior tutela verso i collaboratori di giustizia: «Un paese che vuole la verità si attrezza per cercarla anche potenziando le misure di protezione. Più gli anni passano, più il fardello delle cose non dette diventa pesante. Il coraggio deve essere contagioso, ma quello dei magistrati non basta, serve quello dei cittadini».
Profonda e toccante anche la testimonianza di Gaetano Saffioti, imprenditore calabrese che 13 anni fa ha deciso di rompere il muro del silenzio e dell’omertà, denunciando gli esponenti della 'ndrangheta che gli chiedevano il pizzo: «Accettare e sottostare al metodo mafioso significa perdere la dignità e la libertà. Io ho scelto di vivere e morire da uomo libero, continuando a lavorare nel mio territorio, senza scappare. Non è facile, si vive emarginati da tutti, perché il nostro non è un paese normale. La gente a parole si riempie la bocca di legalità, ma a fatti latita».
Riprendendo una frase di Giovanni Falcone, poi, il testimone di giustizia ha aggiunto: «Falcone diceva “Quando si fa una scelta c'è un prezzo da pagare, ma la gente preferisce lamentarsi anziché fare”. Molti non capiscono che siamo noi gli unici a poter cambiare le cose, e che per farlo serve un cambio collettivo di mentalità. Finché saremo in pochi a ribellarci non riusciremo ad emergere, e sconfiggere il fenomeno mafioso sarà impossibile».
Ed è proprio quest’ultima affermazione ad offrire un ottimo spunto di riflessione, perché se oggi, a distanza di 23 anni, siamo qui a chiederci cosa resta della rabbia e delle proteste esplose in quel triste e doloroso ’92, significa che in realtà è stato fatto molto poco.
La commozione troppo spesso si esaurisce in mera retorica: oggi in Italia non c’è nessuno che a parole non sia contro la mafia, ma nei fatti poi è diverso. E allora viene da chiedersi se lo Stato e la società civile vogliano veramente combattere la mafia.
In troppi ancora rifiutano la teoria secondo la quale in quegli anni vi sia stata (e vi sia tuttora) una trattativa per porre fine alle stragi e che la stessa mafia abbia abbassato il tiro soltanto quando nel 1994 è stato creato un partito politico ad hoc che ne fosse il principale referente e che si facesse portatore dei suoi interessi (a tal proposito, come dimenticare lo striscione “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia” esposto sugli spalti dello stadio “Barbera” di Palermo il 22 dicembre 2002 durante la partita Palermo-Ascoli).
La vera domanda da porsi, quindi, è se la nostra generazione, oggi, si merita il sacrificio compiuto da quegli uomini. Sarebbe opportuno che tutti ci interrogassimo, uno per uno, su che cosa concretamente facciamo per onorare la memoria di Falcone, di Borsellino, degli uomini delle loro scorte e di tutti i martiri caduti sotto i colpi dei corleonesi nel tentativo di difendere un’idea di giustizia che oggi noi stessi fatichiamo a portare avanti.
Salvatore Borsellino, fratello del compianto Paolo, durante un incontro via skype organizzato un mese fa dal Movimento “Agende Rosse” presso la “Libreria Odusia” di Rutigliano, ha definito l’attentato di via D’Amelio “una strage di Stato”, con un chiaro riferimento ai reali mandanti che quell’eccidio vollero o quanto meno avallarono e agevolarono. Ma le sporadiche levate di applausi, le manifestazioni di solidarietà o gli eventi organizzati in memoria di quelle vittime coraggiose, che in quegli anni hanno sfidato la mafia e gli apparati deviati dei servizi per cercare di liberare noi dal compromesso morale e dalla corruzione, se non accompagnate da comportamenti concreti non servono a nulla.
La verità è che finché nel quotidiano continueremo a girare la testa dall’altra parte, pensando che davanti alle ingiustizie l’omertà sia sempre la strada più conveniente, finché accetteremo di vendere il nostro voto e la nostra dignità in cambio di un posto di lavoro o al fine di ottenere un qualsivoglia tornaconto personale, seppur misero, noi staremo calpestando la memoria di quegli uomini, rendendo vano il loro sacrificio. Finché i Saffioti di turno resteranno casi isolati e la regola continueranno ad essere gli imprenditori che il pizzo lo pagano pur di non rischiare, perché no, anche la propria vita, quel sacrificio non lo avremo meritato, perché vorrà dire che la morte di quegli eroi non ci avrà insegnato nulla.
All’Associazione Antimafie “Rita Atria”, al presidio di Bari e a tutti i ragazzi che hanno curato l’organizzazione della due giorni qui nel nostro capoluogo, va un ringraziamento particolare a nome di tutta la redazione di Rutiglianoonline e un grande in bocca al lupo per le attività future dell’Associazione, con la speranza viva e forte che a Bari, come in tutte le altre città italiane, anche grazie a loro possa rinascere una cultura antimafiosa e una nuova società libera dalla corruzione e non soggetta al potere criminale.