Sergio Zavoli, la lezione di un maestro del giornalismo
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- Pubblicato Martedì, 25 Agosto 2020 13:36
- Scritto da Sac. Pasquale Pirulli
Sac. Pasquale Pirulli
Sia pure a distanza di qualche giorno dalla sua scomparsa in questa nota si fa doverosa memoria di un maestro di giornalismo, di cultura e di umanità: Sergio Zavoli. Egli era nato il 21 settembre 1923 a Ravenna ed ha chiuso la sua laboriosa giornata il 5 agosto 2020 a Roma.
La sua scheda nel risvolto di copertina del volume : "La Questione – Eclissi di Dio o della Storia" (Mondadori 2007) ci offre questo essenziale profilo:
«Sergio Zavoli, nato a Ravenna nel 1923, è cresciuto a Rimini, di cui è cittadino onorario. È stato condirettore del Telegiornale, direttore del Gr1 e de "Il Mattino", presidente della RAI. Giornalista, scrittore, autore televisivo, partecipa in varie forme alla vita civile e culturale del Paese. Autore di grandi inchieste – tra cui i tre cicli di "Viaggio intorno all’uomo", "Nascita di una dittatura", "La Notte della Repubblica"; "Credere, non credere", "Diario di un cronista"; la serie dei "viaggi" nella giustizia, nel Sud, nella scuola, nella televisione, nel calcio; i documentari come "Clausura"- ha vinto due Prix Italia e ricevuto i più importanti riconoscimenti nazionali e stranieri. Tra i suoi libri ricordiamo: Socialista di Dio (1981 – Premio Bancarella), Romanza (1987 – Premio Basilicata), Un cauto guardare (1995 – Premio di poesia Alfonso Gatto). L’Università di Urbino gli ha conferito la laurea ad honorem in lettere, l’ateneo romano Tor Vergata la laurea honoris causa in giornalismo. Senatore della Repubblica, fa parte della commissione Istruzione e Beni culturali e presiede la commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico>>.
Nella lectio magistralis all’università di Tor Vergata dell’anno 2007 egli si chiedeva: «Come trasmettere il senso delle cose comunicate se, per garantirsi il consenso del pubblico, si è fatto largo il costume di privilegiare l’effimero e l’inusuale, il suggestivo e il violento strumentalizzando e banalizzando persino la sacralità della vita e della morte?».
Mi piace ricordare la sua capacità di confrontarsi con i fatti quotidiani con intelligenza e cultura così da elevare la cronaca a storia: dalla curiosità per conoscere all’impegno della comunicazione nel rispetto della verità e con la finalità di costruire una società più libera più giusta e nella pace.
Nel documentario radiofonico "Clausura" del 1957, che si avvale delle musiche di Ildebrando Pizzetti, Sergio Zavoli dà voce alle religiose che trascorrono la loro vita operosa nella comunità nel silenzio e nella preghiera. Varca le soglie della clausura del monastero di Carmelitane Scalze e nella prima parte racconta una giornata articolata nel canto, nella preghiera e nel pasto comunitario. Nella seconda parte raccoglie le testimonianze dirette di “donne che escono dal riserbo con ansia trepida e comprensibile disagio e non alzano il velo se non per ricevere l’Eucaristia”. Si ascolta la voce della vicepriora Sr. Madre Teresa Tosi dell’Eucaristia e di altre tre giovani recluse. Possiamo dire che Sergio Zavoli con "Clausura" ha anticipato di anni la splendida sosta nella Grande Chartreuse, casa madre dei certosini, vicino a Grenoble, realizzata dal regista Philip Gröning con l’indimenticabile film “Il grande silenzio” (Die Grosse Stille, 2005).
Vorrei soffermarmi sui due volumi del grande maestro della comunicazione presenti nella mia biblioteca.
Il primo è “La Questione – Eclissi di Dio o della storia?” ed è presentato così nel risvolto di copertina: «Con La questione, uno dei suoi libri più intensi Sergio Zavoli sembra riprendere il cammino inaugurato da quel "Viaggio intorno all’uomo" che non ebbe soltanto uno straordinario successo televisivo, ma avviò un filone di ricerca che, come scrisse Carlo Bo <<mette a prova il pensare e il sentire su questioni che vanno sempre al fondo della nostra presenza nel mondo, affrontandone lucidamente gli aspetti cruciali: la creazione e il caos, la natura e la storia, la ragione e la fede, la scienza e letica, l’ideologia e la morale». Altrettanto problematica è la stupefacente sequela di trionfi e di catastrofi che punteggiano le grandiosa e inquietante vicenda vissuta nell’ultimo mezzo secolo dalla più avanzata porzione del mondo, l’Occidente, ora impegnato in un’inedita e drammatica sfida con altre aree e culture del pianeta.
Un testimone del nostro tempo tra i più credibili e amati ci riconduce , con il suo inconfondibile stile di scrittura e di riflessione, nel complesso scenario della nostra storia recente e, attraverso una serrata, coinvolgente interrogazione, la percorre dal secondo conflitto mondiale a oggi, con quell’"11 settembre 2001" che ha mutato il volto delle vicende umane, segnando mentalità e politiche, costumi e destini, e non solo di una generazione.
È come se queste pagine fossero state pensate e scritte nel desolato spazio di Ground Zero, il luogo dove sorgevano le Torri Gemelle, per celebrare una sorta di processo epocale alle nostre stoltezze e concluderlo affrontando il più grave dei pericoli, cioè la mancanza di percezione del pericolo. È questa la minaccia che incombe sul mondo e sulla nostra vita. Anche perché non è più vero che, come disse Abraham Lincoln, "il futuro arriva solo un giorno alla volta": la velocità con cui ci viene incontro è tale che sembra già nella nostra storia. Questa urgenza smaschera la pochezza del relativismo. Ciascuno deve tornare a misurarsi con la millenaria lezione dell’etica per definire e regolare la disputa tra Bene e Male, tra lecito e illecito, da sottrarre a ogni fondamentalismo e da affrontare, invece, con la più inquietante delle saggezze, quella del dubbio.
Formulare con chiarezza le questioni irrisolte nel passato (guerre, razzismi, dittature) e insorgenti nel presente (terrorismo, carestie, migrazioni), e nel contempo rifiutarsi di nascondere o contraffare la verità accettando soluzioni accomodanti o evasive, è forse l’unico mondo intellettualmente onesto di offrire una reale opportunità di conoscenza soprattutto ai giovani. È loro infatti il tempo delle domande, spesso rimaste senza risposte perché non sapevano chi interpellare, e come».
Il volume dopo una introduzione è suddiviso in sette capitoli: 1: Niente è più come prima, neppure Dio; 2: Mi vedi? Sto morendo!; 3: Le guerre senza pace; 4: L’ordine e il caos; 5: La natura e il dolore; 6: Il bambino che non ride più; 7: Un nuovo pensare, parlare, agire ed è concluso dall’indice dei nomi, che trascorre da antichi a recenti protagonisti della nostra storia.
Il secondo volume “Socialista di Dio” forse gli è particolarmente caro perché nel titolo ritrova la definizione di un "critico extravagante, e tuttavia intelligente” e non se ne duole con il suo autore perché “ha considerato quella specie di lazzo quasi un’oggettiva classificazione, magari estrosa e ammiccante” e ha deciso di farne “una chiave di lettura del libro e, per quel che può importare, di chi lo ha scritto”. Per conoscere Sergio Zavoli mi soffermo a rileggere le sue riflessioni sugli incontri con la vicepriora del monastero del Carmelo registrate in questo volume:
«Non conoscevo il suo viso, eppure discorrevamo da diversi giorni. La "vedevo" il mattino, verso le sette, e si restava insieme un paio d’ore; poi, nel pomeriggio, altrettante. Le domandavo varie cose, ancora preliminari: l’età, di dov’era, quando si era fatta monaca, da quanto tempo non vedeva suo padre e sua madre.
Aveva l’erre blesa, parlava con un po’di affanno, la voce le si incrinava. Ogni tanto faceva una pausa e ricominciava con un sospiro che metteva a disagio. Mi spiegò la regola del silenzio; dovevo scusarla, mi disse, perché il Carmelo è così silente che si finisce per dimenticare tante parole e il conversare è sempre più faticoso. Quando entrammo più in confidenza; e fu presto, la pregai di credere che la mia curiosità, nei riguardi suoi e del Carmelo, era l’ultimo dei miei pensieri; che prendesse com’ero, perciò, con le mie parole e i miei modi. «Faccio parte di una generazione» le dissi «cui non basta più las parola che mette pace; la vita sta nella continua domanda, nell’aggredire il dubbio, nel provocarlo»; un po’ d’enfasi, lo confesso, ma l’approccio non era facile e mi scoprivo una tensione che non avevo previsto.
C’è un fascino della certezza e dell’imperturbabilità, ma ce ne dev’essere uno anche nell’inquietudine, mi dicevo; pensavo, cioè, che la mia presenza avesse un significato e persino uno scopo anche per chi stava al di là della grata. «Perché è venuto qui?» mi domandò, Capii che mi aiutava, e le parlai senza prudenze né imbrogli. Mi rispose che andava tutto bene, non c’era proprio niente di cui dovessi scusarmi. Facevamo amicizia a poco a poco. Una mattina arrivai digiuno, e glielo dissi. Mi fece preparare la colazione, Sentii risuonare la tazza come nella cassa di un violoncello, e ricordai i suoni che mandano i legni delle chiese. Poi un fruscio, e mi trovai tra le mani un caffellatte e due biscotti. Le monache di clausura fanno i biscotti per il vescovo, per il medico che va a visitarle, per una probanda in arrivo, per una novizia che prende il velo, per i figli del guardiano e per coloro che portano via una monaca (trasferita o ammalata o morta) perché la trattino, in ogni caso, con riguardo.
Eravamo d’inverno e l’aria, certo, non le giovava. C’era un affettuoso daffare intorno a quella sottopriora che non si dava un attimo di respiro pur di rispettare al Regola. Seppi che era di Piacenza, che aveva trentanove anni, che non vedeva i genitori da molto tempo. Sostituiva la priora. Le consorelle, specie se novizie, la interpellavano per ogni cosa, anche la più futile, e suor Maria Teresa dell’Eucaristia le richiamava serenamente alla Regola. «Sono così giovani» mi diceva «e così prese dalla fiducia in Dio, che ogni tanto gli mancano di rispetto».
Tutte le matt5ine si annunciava così; «Suor Maria Teresa dell’Eucaristia, e anche di ciò sia lodato Gesù Cristo». Sarebbe che sarebbe stato corretto, e, umile, risponderle «sempre sia lodato», ma non ne fui mai capace. Così laico, ma anche così goffo, mi sentivo del tutto dall’altra parte della grata. «La sua presenza qui potrebbe essere un segno del Signore» mi disse una volta «e noi non lo abbiamo chiesto». Il dialogo era cominciato.
«Pensavo, madre, che viveste nel più miserevole degli abbandoni materiali. Credevo di incontrare persone stanche, mortificate, dolenti; sono di fronte, invece, a creature di una rara serenità. Eppure si dicono cose spesso dolorose della clausura…».
«Può darsi che durante il periodo di quest’ultima guerra, in alcune zone più duramente colpite, si sia verificato qualche caso del genere. Noi stesse ricordiamo bene quel lontano 25 settembre del 1943, quando si lasciò il monastero fortemente sinistrato. E, subito dopo, quel doloroso periodo dello sfollamento. Dover trasportare delle religiose dopo quarant’anni di vita di clausura non era una cosa del tutto semplice…».
«Quali ricordi conserva di quel trasferimento attraverso la città?».
«Direi che le più giovani erano abbastanza disinvolte. Le più anziane – specialmente una, dopo quarantadue anni di vita di clausura – erano molto colpite da tante piccole cose… Gli abiti corti che portavano allora le donne e le macchine, quel movimento, quel traffico insolito».
«Accompagna la vostra vita tutta una tetra letteratura. S dice che abbiate perduto ogni possibilità di dialogo umano; che la costrizione tra quete mura abbia inaridito la vostra mente…».
«Vede, dopo tanti anni di vita monastica il nostro spirito si semplifica moltissimo, e allora abbiamo un modo di concepire le cose tanto diverso dal vostro…>>
<<Che cosa è lecito rimpiangere di ciò che avete lasciato?».
«Se c’è qualcosa che rimpiango non è tanto per quello che ho lasciato, quanto per quello che avrei voluto avere da lasciare. Vorrei aver posseduto il mondo intero per offrirlo al Signore».
«Che cosa avete conquistato tra queste mura?».
«La pienezza della verità e una gioia, una pace, non provate mai prima d’ora».
«Ma non era sufficiente votare a Dio le vostre esistenze nei limiti normalmente accettabili da un essere umano? Perché questa estrema rinuncia ai beni del mondo?»
«Non dipende tanto da noi, quanto da Dio. A noi non rimane che aderire con generosità. Senza una chiamata non sarebbe possibile questo nostro perseverare. È da Lui che ci viene la forza e il coraggio».
«Non è peccato d’orgoglio questa mortificazione totale?»
«Forse, in un primo tempo, in alcune creature. La giovane che si sente chiamata a questa vita, se vogliamo, un po’ straordinaria, sente di essere qualcosa nei confronti di tanti altri…»
«Qualche cosa di eroico?».
«Ecco, pensa di compiere qualcosa di singolare, di grande, di eroico. E allora può esservi una sfumatura di esaltazione! Ma non appena capisce che questa eroicità è l’atmosfera normale della nostra vita, e vede che con tanta naturalezza e semplicità le monache in essa si muovono, si sente l’ultima. Appunto perché si vede impacciata, non sa fare le cerimonie con perfezione e regolarità! Se all’inizio c’è un momento d’orgoglio, subito le cade...».
«Rimpiangereste questa grata se vi fosse imposto di lasciare la clausura e di tornare in mezzo agli uomini?».
«Questa imposizione potrebbe essere a noi solo dal Santo Padre, e allora sapremmo vedere nella sua disposizione la volontà del Signore. Immediatamente lasceremmo, senza rimpianto, se pure con tanta pena, la nostra clausura. La santità e la perfezione, per noi, stanno semplicemente nel compiere la volontà di Dio».
«Come si vince, nei primi tempi, la tentazione della parola, della confidenza, della vita in comune, del dialogo?»
«Il silenzio esterno non è solo quello della parola, per noi è anche quello del camminare, del chiudere una porta, del non lasciar sbattere troppo la corona. E per silenzio interno… è difficile saperlo conquistare, perché il silenzio materiale viene quasi da sé, l’atmosfera e l’ambiente ci aiutano molto. Ma chi può impedire al cuore di risentire, di riassaporare certe emozioni provate fuori e, forse, anche di desiderare di riviverle?».
«Ha mai assistito alla morte di una consorella?». «Oh sì, ne ho viste tante ormai…».
«È vero che è un giorno di grande letizia?»
«Di letizia piena, se dobbiamo essere sincere. Sentiamo che qualcosa di grande è avvenuto nella comunità. Per noi la morte non è, come per voi, un evento che ci strappa qualcuno dei nostri cari. Noi, non appena una religiosa ci lascia, sentiamo che è entrata nel regno della verità, della luce, dell’amore pieno. E allora ritroviamo il suo spirito molto più vicino al nostro…».
«Ed è per questo che suonate a festa?». «Sì, penso sia per questo.>> <<Non siete mai tentate di piangere?».
«Oh, sì. C’è un momento nel quale la commozione ci vince. Non tanto quando la religiosa spira. Finché possiamo vegliarla, pregare vicino a lei, recitare l’ufficio dei defunti per lei, averla ancora con noi, l’atmosfera di serenità si conserva. Ma quando, all’ultimo momento, la portiamo alla soglia della clausura e siamo costrette a deporla in mano di uomini… non sempre usano quella delicatezza che noi desidereremmo. Alle volte preferiremmo che la cassa fosse presa per le maniglie, che non la toccassero… dopo un’intera vita verginale è per noi particolarmente doloroso veder che qualcuno, che un uomo, pur non toccandolo, compie qualcosa attorno a quel corpo consacrato!...».
«C’è un voi, Madre, una specie di ansia della morte?».
«Ansia noi, desiderio sì! Pochi giorni fa, a ricreazione, si parlava di questo argomento e una giovane consorella, vedendo in me un certo entusiasmo, mi chiese: “Sembra, quasi che Vostra Reverenza viva solo aspettando la morte?”. La corressi: “No, sorella, io non vivo aspettando la morte, e se il Signore desiderasse che io campassi anche mille anni non avrei difficoltà alcuna. Ma lei pensa, Vostra Carità, come sarà bello quel momento per noi? Incontrarsi con Colui per il quale abbiamo vissuto, per il quale abbiamo tanto sofferto, al quale ci siamo consacrate?”».
Non ho della morte una sola opinione che mi consoli, e a quel punto glielo dissi. Poi aggiunsi che mi sentivo distante da lei ben più dello spazio che ci divideva, che non ci separava solo la grata. Provai a spiegarmi con un’immagine: «Il vostro andare lungo il corridoio, con gli occhi bassi e le mani nascoste dentro lo scapolare, non attraversa la mia città». Fu paziente e coraggiosa: «Io attraverso ogni giorno la sua città, e con me le mie consorelle. Le ripeto: chi può impedire al cuore di risentire e persino di voler rivivere qualcosa che nel mondo, dopotutto, c’è ancora?».
Avevo sempre pensato che in certe monache di clausura si celasse una frenesia disumana di finire questa vita, consumandola perfettamente. Mi disse: «Non saprei insegnarle a vivere e a morire più di quanto altri non possano fare; ma so per certo che vivere e morire, nelle mani di Dio, è semplice come svegliarsi e prendere sonno». «Beata lei!>>,stavo per dirle. Ma eravamo al congedo: <<… e se il suo sacrificio avesse il potere di salvare un’anima sola, a chi lo offrirebbe?».
«Se saprò degnamente macerarmi nel mio solco, quel fiore di grano che nascerà dalla mia morte lo colga una creatura umana. Non importa chi essa sia, da dove venga, che cosa cerchi. Dio, ti chiederò soltanto che lo veda per primo un uomo senza speranza… Sia lodato Gesù Cristo!».
Dopo il nostro incontro, per un anno, continuò a scrivermi. Apriva e chiudeva le lettere, che incorniciava con dei festoncini accuratamente disegnati, chiamandomi «fratello in Cristo». Di sé non parlava mai, se non assumendo la propria persona come povero esempio di ciò che può essere e non essere una monaca tutta nascosta nell’amore di Dio. Era afflitta dal pensiero di un debito contratto per riparare il convento, ma non faceva più del lecito perché aumentassero le elemosine. «Potessimo pagare del tutto questa casa», mi confidava «morirei ancora più in pace». Il giorno in cui le assegnarono un <<premio di bontà>> lo rifiutò dicendo che «se sei buono, sei già stato premiato!».
Passò qualche te4mpo e appresi che era gravemente ammalata; d’aria, mi dissero, come quasi tutte le monache che raggiungono il massimo della spiritualità, cioè dell’indifferenza verso se stesser in quanto creature di questa terra. Ciò accadeva alla fine del 1957. Con un mucchietto di biscotti nel fazzoletto salì su una macchina e fu portata a curarsi da qualche parte. Passarono dei mesi e tornò guarita.
Trascorsi altri anni, venni a sapere che non era più al Carmelo. La Chiesa, dopo papa Giovanni XXIII, le aveva consentito di dare vita a una nuova testimonianza monastica, ma "in mezzo ai fratelli". Da allora vive in un eremo sul monte Subasio, in Umbria».
Ha fatto bene la RAI a dedicare al suo presidente una doverosa commemorazione e lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato con queste commosse parole:
«La scomparsa di Sergio Zavoli mi addolora. Desidero anzitutto esprimere i miei sentimenti di vicinanza e solidarietà ai familiari. Il giornalismo italiano perde uno dei suoi maestri. Il congedo di Zavoli – come lui stesso lo definiva – sarà occasione per ripensare la sua eredità, per ricordare l’originalità e la qualità dei suoi lavori più importanti, per trarre spunti e ispirazione dal suo stile, dalla sua etica professionale, dalla sua grande forza narrativa capace di andare in profondità e di cogliere l’umanità che sta dietro gli eventi e i protagonisti. Giornalista, scrittore, intellettuale di grande sensibilità, Zavoli è stato un pioniere dalla radio e una personalità tra le più rappresentative della televisione italiana. Il suo nome e il suo volto sono legati a programmi di successo e di valore, che resteranno nella memoria. La sua autorevolezza lo portò alla presidenza della Rai e, successivamente, da senatore, alla presidenza della Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi. Lascia una testimonianza di un grande insegnamento per tutto il mondo dell’informazione e per i giovani che si avviano a una professione così importante per le libertà democratiche e per la qualità della vita civile».