Ricordo di Pier Paolo Pasolini, Poeta e regista corsaro - Casarsa
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- Pubblicato Giovedì, 10 Marzo 2022 22:40
- Scritto da Sac Pasquale Pirulli
Lettera a Pier Paolo Pasolini
Sac Pasquale Pirulli
Negli anni “romani” (1955-’59) sono stato più di una volta ad Ostia visitando le antiche rovine romane (anfiteatro, castello, ecc.) ma non ho avuto la possibilità di camminare sulla battigia del mare che più tardi, cioè quarant’anni fa e precisamente nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, avrebbe accolto le orme del tuo corpo assassinato dal giovane diciassettenne Giuseppe Pelosi. Non mi sarà possibile consegnarti questa lettera lasciandola sul freddo marmo della tua tomba nel cimitero di Casarsa.
Non posso fare a meno di ricordare sempre in quegli anni le immagini sconvolgenti e crude della periferia romana (la borgata del Mandrione) che sfioravo quando ci avventuravamo lungo la via Tuscolana oltre gli archi dell’acquedotto Felice superando Porta Furba e raggiungevamo il complesso di Cinecittà che per noi, giovani seminaristi, era zona off-limits. La periferia romana sarà il teatro di quella fatica di vivere che ritroviamo nei tuoi romanzi: “Una vita violenta”, “Ragazzi di vita” e in tanti tuoi film come “Mamma Roma”, “Accattone”, “Uccellacci e uccellini”, “La ricotta”. E tu non dimentichi la tua attiva e commossa partecipazione nell’anno 1956 all’inchiesta condotta sulla borgata del Mandrione dall’antropologo Franco Cagnetta e dal fotografo Franco Pinna e sponsorizzata da Giangiacomo Feltrinelli mentre ti accompagnavano Elsa Morante e Goffredo Parise. A segnalare la problematica sociale della borgata era stata l’insegnante della scuola elementare “G. Cagliero” nel quartiere Appio-Tuscolano sita di fronte alla Basilica di S. Maria Ausiliatrice nel cui territorio parrocchiale era il nostro collegio, precisamente in Via Narni 29, in fondo a Via Amelia poco oltre lo stabilimento farmaceutico Angelini.
Nella ricorrenza triste del 40° anniversario della tua tragica scomparsa (2 novembre 1975) il regista Gabriele Muccino ha postato sul suo sito un giudizio tranciante sulla tua filmografia: “Ho criticato Pasolini regista che ha di fatto impoverito e sgrammaticato il linguaggio cinematografico dell’epoca. Ma per quanto io ami Pasolini pensatore, giornalista e scrittore, ho sempre pensato che Pasolini regista fosse fuori posto, anzi, semplicemente un “non regista” che usava la macchina da presa in modo amatoriale, senza stile, senza un punto di vista meramente cinematografico sulle cose che raccontava … Il cinema pasoliniano aprì le porte a quello che era di fatto l’anticinema in senso estetico e di racconto. Il cinema italiano morì di lì a pochissimi anni con una lunga serie di registi improvvisati. Con legittimo e immenso rispetto per Pier Paolo Pasolini poeta e narratore della nostra società quando ancora in pochi riuscivano ad interrogarla, provocandola e analizzarla; il cinema è però altra cosa… Ho detto che Pasolini regista ha aperto la porta ad altri registi improvvisati che non avevano nemmeno l’immensa statura di scrittore e poeta. Ho detto che Pasolini era uno scrittore prestato al cinema e che il cinema non era nelle sue corde più alte. Lo penso, lo penserò e avrò il sacrosanto dovere di dirlo anche davanti ad una folla di forcaioli che ha intasato questa bacheca di insulti”.
Non posso condividere assolutamente quanto ha pubblicato lo scrittore Gaetano Cappelli, perché ispirato a acrimonia e disprezzo: “Ricorre oggi san Pasolini, il grande intellettuale profeta italiano. Da giovane consegnò un compagno di scuola alla polizia fascista. Passò poi con i comunisti che gli avevano trucidato il fratello. Fu il primo a scagliarsi contro la cultura di massa, disprezzò i Beatles e la televisione stando sempre in televisione. Riprese a fare l’apologia del comunismo in Russia negli anni 70 quando anche tutti sapevano la schifezza che era. Si scagliò contro il consumismo girando in Ferrari e posando in total Gucci. Oggi molte scuole gli sono dedicate, egli infatti, Pasolini, amò molto i regazzini”.
A mitigare questi giudizi negativi posso ricordare l’attenzione che noi tutti, studenti di teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica “San Luigi” di Posillipo (Napoli), riservammo alla prima del film “Il Vangelo secondo Matteo” nella sala di Via San Sebastiano a Napoli con la guida di P. Mario Casolaro S. J. Alla proiezione assistevano “per concessione benevola” del Card. Alfonso Castaldo, arcivescovo di Napoli, solo gli alunni di IV teologia del Seminario Arcivescovile di Capodimonte.
Una tua essenziale scheda biografica la ricavo dal volume “Gesù nel cinema” (Ecumenica Editrice, Bari 2006) di D. Vito Marotta (Gioia del Colle N. 4.5.1955 - +2.04.2009): “Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo del 1922 a Bologna. Del 1938 è l’esordio poetico, collabora a Il setaccio, e in questo periodo scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, Poesie a Casarsa. Partecipa alla realizzazione di un’altra rivista Stroligut, con gli amici crea l’Academiuta di lenga frulana. Nel 945 Pasolini si laurea discutendo una tesi intitolata “Antologia della lirica pascoliana” e si stabilisce in Friuli. La risonanza a Casarsa dei fatti di Ramoscello, accusato di pedofilia, avrà una vasta eco. Decide di fuggire da Casarsa e si trasferisce a Roma. I primi anni romani sono difficilissimi, proiettato in una realtà quale quella delle borgate romane. Pasolini tenta la strada del cinema. Nel 1954 il suo primo importante volume di poesie dialettali: La meglio gioventù. Nel 1955 viene pubblicato da Garzanti il romanzo Ragazzi di vita, che ottiene un vasto successo. Il giudizio della cultura ufficiale della sinistra è però in gran parte negativo. Nel 1957, insieme a Sergio Citti, collabora al film di Fellini, Le notti di Cabiria, stendendone i dialoghi nella parlata romana; poi firma sceneggiature e insieme a Carlo Lizzani esordisce come attore nel film Il gobbo del 1960. In quegli anni collabora anche alla rivista Officina. Nel 1957 pubblica i poemetti Le ceneri di Gramsci per Garzanti e l’anno successivo, per Longanesi, L’usignolo della Chiesa cattolica. Nel 1960 Garzanti pubblica il saggio Passione e ideologia, e nel 1961 un altro volume in versi La religione del mio tempo. Nel 1961 realizza il suo primo film da regista e soggettista Accattone. Il film suscita non poche polemiche alla XXII mostra del cinema di Venezia. Nel 1962 dirige Mamma Roma. Nel 1963l’episodio La ricotta (inserito nel film a più mani RoGoPaG), viene sequestrato. Nel 1964 dirige Il Vangelo secondo Matteo; nel 1965 Uccellacci e uccellini; nel 19676 Edipo re, Nel 1968 Teorema; nel 1969 Porcile; nel 1970 Medea; tra il 1970 e il 1974 la trilogia della vita, o del sesso, ovvero Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, per concludere col suo ultimo Salò o le 120 giornate di Sodoma nel 1975. Nel 1972, presso Garzanti, pubblica i suoi interventi di critica cinematografica, nel volume Empirismo eretico. Nel 1968 ritira dalla competizione del Premio Strega il suo romanzo Teorema. Nel 1973 comincia la sua collaborazione al Corriere della sera, con interventi critici sui problemi del paese. Presso Garzanti pubblica la raccolta di interventi critici Scritti corsari. La mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romano ad Ostia, in un campo incolto in Via dell’idroscalo, una donna scopre il cadavere di un uomo. Sarà Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier Paolo Pasolini. Il corpo di Pasolini è sepolto a Casarsa”. (cf o.c., pp. 84-85).
I tuoi provocatori interventi su temi sociali e politici saranno raccolti postumi nei volumi Lettere luterane (1976), Descrizioni di descrizioni (1979), Le belle bandiere (1977), Il caos (1979), Il portico della morte (1988). Saranno recuperate altre opere narrative: La divina mimesis (1975), Amado mio (1982), e il romanzo incompiuto Petrolio(1992) e Salò. I tuoi testi teatrali sono stati pubblicati nel volume Teatro (1988) e anche quelli poetici: Bestemmia. Tutte le poesie 1993). Dobbiamo ringraziare tuo cugino N. Naldini che ha recuperato molti scritti del tuo iniziale periodo “friulano”: Un paese di temporali e primule (1993); Romans (1994). Egli ha curato l’edizione del tuo epistolario in due volumi: Lettere 1940-1954 (1986); Lettere 1955-1975 (1988). Dobbiamo a W.Siti la pubblicazione di tutte le tue opere in ben dieci tomi (1998-2003).
In tal modo realizzi un mosaico che è quadro fedele della realtà nella quale sei coinvolto con tutta la tua vita, con tutta la tua passione tanto che Emanuele Trevi parla di “metodo erotico” per cui tutta la tua persona la investi nella ricerca e nella parola (o immagine) che la comunica. Riprendendo una tua provocatoria confessione nell’ultima intervista data a Furio Colombo tu ai tuoi colleghi (intellettuali, scrittori, ecc.) ripeti: “Voi non vedete la società come la vedo io, non per un limite di intelligenza o di cultura, ma perché non conducete la vita che conduco io”. Bisogna così riconoscere il tuo deciso e completo impegno senza risparmio di tempo nella tua missione sociale e culturale. A soddisfare la tua sete di conoscenza (esperienza) e il tuo impegno comunicativo non bastavano le ore del giorno e spesso ti abbandonavi alle scorribande notturne. Lo hai dimostrato anche durante il viaggio in India quando anche dopo cena sei uscito per le strade di Bombay, trascinando l’amico Alberto Moravia, con l’intento di conoscere la vita notturna degli uomini. Invitando l’amico ad andare a riposare per osservare “l’igiene della vita” ti giustificavi: “Ma io no. Io finché non sono stremato (ineconomico come sono ) non disarmo!” perché scrivevi in altra occasione: “Mi piaceva camminare, solo, muto, imparando a conoscer passo per passo quel nuovo mondo, così come avevo conosciuto passo passo, camminando solo, la periferia romana”.
Il diario di quel viaggio, fatto per sei settimane in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, lo hai pubblicato nell’anno 1962 con il titolo: “L’odore dell’India” dall’editore Longanesi. Non puoi dimenticare il vostro incontro con la piccola suora che la Chiesa riconoscerà poi come un’apostola della carità ed ha il nome di Beata Teresa di Calcutta: “Ho conosciuto dei religiosi cattolici: e devo dire che mai lo spirito di Cristo mi è parso così vivido e dolce; un trapianto splendidamente riuscito. A Calcutta, Moravia la Morante ed io siamo andati a conoscere Suor Teresa, una suora che si è dedicata ai lebbrosi. Ci sono sessantamila lebbrosi, a Calcutta, e vari milioni in tutta l’India. E’ una delle tante cose orribili di questa nazione… bisogna rendersi conto che c’è ben poco da fare in quella situazione. Suor Teresa cerca di fare qualcosa: come lei dice, solo le iniziative del suo tipo possono servire, perché cominciano dal nulla. La lebbra, vista da Calcutyta, ha un orizzonte di sessantamila, vita da Delhi ha un orizzonte infinito. Suor Teresa vive in una casetta non lontana dal centro della città, in uno sfatto vialone, roso dai monsoni e da una miseria che toglie il fiato. Con lei ci sono altre cinque, sei sorelle, che l’aiutano a dirigere l’organizzazione di ricerca e di cura dei lebbrosi, e, soprattutto di assistenza alla loro morte: esse hanno un piccolo ospedale dove i lebbrosi vengono raccolti a morire. Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle, perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili, e l’occhio dolce che, dove guarda, «vede». Assomiglia in modo impressionante a una famosa sant’Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica”. (cf P. P. PASOLINI, L’odore dell’India, Corriere della Sera, Milano 2015,pp. 45-46).
Nella tua vicenda culturale multiforme (poeta, cineasta, opinionista, ecc.) non hai impegnato solo il tuo tempo ma la tua stessa vita, stroncata nel pieno delle sue forze, e questa osmosi tra la vita e l’opera è talmente stretta che l’esempio cui ci possiamo rifare è quello del poeta Giacomo Leopardi in cui la vita si è trasformata in canto poetico.
Schematicamente. o se vogliamo dire didatticamente. sarà quanto mai opportuno suddividere la tua vicenda in tre periodi o tappe: la prima è quella del dialetto friulano, la seconda quella del romanzo, la terza quella del cinema. Proprio questa tua ricca capacità di espressione che trascorre dalla vita quotidiana del paese o della borgata al racconto testimonianza sociale e all’immagine realistica e incisiva mi fa pensare alla poliedricità di un uomo rinascimentale quale Michelangelo Buonarroti il quale si scopriva pittore, scultore e poeta.
Nei limiti di una lettera, che vuol essere solo memoria e cordiale invito a confrontarsi con il tuo sempre attuale e provocatorio pensiero, non è possibile soffermarsi sulla tua opera poetica che inizialmente predilige il dialetto friulano. Non si tratta per te di una originale operazione intellettuale per épater le burgeois e conquistare la platea per gli applausi di rito, quanto di una testimonianza di condivisione della dura vita di ogni giorno e di rispetto per le tue stesse radici, riassunte nel paese di Casarsa, punto sempre di riferimento della tua vita errabonda che iniziata a Bologna tocca poi Conegliano, Belluno, Parma, Sacile, Cremona, Scandiano, Reggio Emilia e Roma. Saranno proprio le tue Poesie a Casarsa a richiamare l’attenzione di Gianfranco Contini, Alfonso Gatto e Antonio Russi. Per quanto riguarda l’iter della tua formazione culturale essa si svolge in diverse città sempre al seguito del capofamiglia Carlo Alberto ufficiale di fanteria, che avrà anche un periodo difficile a causa della sospensione dal servizio e deve fare leva sull’impegno della mamma Susanna Colussi che è insegnante ma anche nella necessità cameriera. Il ginnasio lo frequenti a Reggio Emilia e poi sei tra gli alunni del Liceo Galvani a Bologna dove fai amicizia con Luciano Serra. Hai modo di coltivare la tua passione per lo sport praticando il calcio, non dimenticando che nel periodo trascorso a Sacile avevi fatto le tue prove di pittore e di poeta dialettale. Dedichi il tuo tempo alla lettura di classici (Dostoevskij, Tolstoj, Shakespeare e autori romantici) mentre durante la frequenza alla Facoltà di lettere di Bologna ti entusiasmi per la filologia romanza, l’estetica e l’arte sotto la guida del prestigioso Roberto Longhi. Non ti estranei alla vita degli universitari e partecipi al GUF e ai campeggi della Milizia. Hai il tempo per leggere i poeti del tuo tempo: Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo. Attraverso il film di René Clair scopri la tua passione per il cinema. Purtroppo nel bailamme della guerra devi lamentare la perdita di un primo schema di tesi con Roberto Longhi e poi riesci a laurearti con Carlo Calcaterra discutendo la poetica di Giovanni Pascoli.
Adesso vorrei sentirti raccontare del tuo primo romanzo: “Ragazzi di vita” nel quale tracci un quadro delle borgate romane e del sottoproletariato romano che deve fare i conti con quello che è il “genocidio” sociale. Eri giunto a Roma con il ricordo amaro di un processo scandaloso derivante da una tua scelta di vita in quel di Ramoscello e che ti aveva emarginato anche dall’attività politica e svolgevi il tuo lavoro di insegnante di scuola media.
Questi appunti vogliono essere un cordiale invito a confrontarsi personalmente con le pagine del tuo libro del quale scrivevi a Livio Gazanti in questi termini: “La mia poetica narrativa consiste nell’incatenare l’attenzione sui dati immediati. E questo mi è possibile perché questi dati immediati trovano la loro collocazione in una struttura o arco narrativo ideale che coincide poi col contenuto morale del romanzo. Tale struttura si potrebbe definire con la formula generale: l’arco del dopoguerra a Roma, dal caos pieno di speranze dei primi giorni della liberazione alla reazione del ’50-51. E’ un arco ben preciso che corrisponde col passaggio del protagonista e dei suoi compagni (il Riccetto, Alduccio ecc.) dall’età dell’infanzia alla prima giovinezza: ossia (e qui la coincidenza è perfetta) dall’età dell’infanzia alla prima giovinezza: ossia ( e qui la coincidenza è perfetta) dall’età eroica e amorale all’età già prosaica e immorale. A rendere “prosaica e immorale” la vita di questi ragazzi (che la guerra fascista ha fatto crescere come selvaggi: analfabeti e delinquenti) è la società che al loro vitalismo reagisce ancora una volta autoristicamente imponendo la sua ideologia morale. Badi che tutto questo resta “prima” del libro: io come narratore non interferisco”.
A te interessa il trapasso della società che muta i suoi valori nell’arco di tempo e gli avvenimenti, pur legati ai “regazzini” protagonisti, scandiscono anche il cambio dei valori. Tu stesso dai un input a questa lettura del romanzo scrivendo allo stesso editore Garzanti: “Il Riccetto, nel primo capitolo del romanzo, andando in barca con alcuni amici sul Tevere – “regazzino”,ma già esperto di tutte le bassezze, ladro, senza scrupoli, ecc. - - a un certo punto si getta a nuoto per salvare una rondine che sta affogando sotto Ponte Sisto. Nell’ultimo capitolo, affoga sull’Aniene un ragazzetto, Genesio (una fra le figure più “a tutto tondo” del romanzo) e il Riccetto, già quasi giovanotto, non muove un dito per salvarlo. Tra questi due momenti si svolge tutto l’arco narrativo…”. Nei confronti dei ”borgatari” romani tu hai spontanea simpatia per la loro selvaggia vitalità che vuol sfruttare un mondo problematico ed ostile senza far conto di regole morali, ma avverti anche un sentimento di pietà per la lotta che faranno per sopravvivere in una società che con l’insegna della città produrrà emarginazione e farà sentire la povertà come ingiustizia e condanna. E tu concludi il romanzo condannando la ipocrisia della società borghese perché “Il Riccetto è ormai perso tra gli altri, anonimo: un giovanotto o quasi, che fa il manovale a Ponte Mammolo, chiuso nell’egoismo, nella sordidezza di una morale che non è la sua”.
Beh questo primo romanzo ti ha fatto passare diverse ore anche nelle aule dei tribunali. “La IV sezione del tribunale di Milano celebrò il processo per oltraggio al pudore. Sedevano nel banco degli accusati Pasolini e Garzanti. Il fango ricoprì il giovane scrittore, e proveniva sia da destra sia da sinistra, con le medesime argomentazioni. Il tribunale, anche grazie alle testimonianze in favore dell’imputato, giurate da Emilio Cecchi, Carlo Bo, Gianfranco Contini, Giuseppe De Robertis, Giancarlo Vigorelli, Anna Banti, Giambattista Vicari, Alberto Moravia e altri, lo assolse dall’imputazione” (cf Vincenzo Cerami, introd., p. 11) Amaramente lo stesso Cerami commenta: “Di fatto Pasolini, da allora e per tutto il resto della sua vita, venne smaccatamente perseguitato. All’indice erano sia la persona sia le opere: sono all’incirca cento le querele e i processi subiti”.
Non hai bisogno di molte parole per giustificare la tua scelta linguistica del dialetto romanesco che sottolinea “la dolente distanza, non critica, ma vitale, dalla materia del romanzo”. Precisa Cerami nella sua introduzione: “Il romanesco con cui lo scrittore divaga, descrive e racconta, è una contaminazione tra quello dei parlanti e quello “imitato”, reinventato dall’autore: una reinvenzione linguistica non soltanto obbligata, ma necessaria alla elaborazione colta del racconto. Il lettore, malgrado tutti gli sforzi mimetici, non può fare a meno di “sentire” il gioco verbale e l’architettura pasoliniani. Si potrebbe perfino dire che si tratta di un calco del realismo”.
Per me proprio attraverso questa scelta linguistica hai testimoniato il tuo grande amore per quei “regazzini” e quella umile umanità che incontravi nelle tue scorribande anche notturne nelle borgate di Roma.
Avendo dedicato questa prima parte della lettera al tuo primo romanzo “Ragazzi di vita”, nella seconda mi soffermo sul tuo film più conosciuto anche perché testimonia il fascino che hai avvertito confrontandoti con la figura di Gesù di Nazareth.
Con la spregiudicatezza dello spirito “corsaro” hai alla fine confessato la tua “ansia volgare” verso il Cristo: “L’ho trovato Cristo, l’ho rappresentato. Mi manca qualcosa, ma questa mancanza non mi dà dolore. Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto in ogni mio intuire. Ed è volgare questo non essere completo, è volgare. Mai fu così volgare come questa ansia, questo non avere Cristo”. (P.P. Pasolini, Quaderni Filmcritica, Bulzoni, Roma 1977, pp. 57-72).
Noi dobbiamo dire un grazie a D. Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate di Assisi, che nella sua ansia apostolica non conosceva barriere e accoglieva tutti, senza alcuna eccezione di cultura e di politica, pur di poter parlare di Cristo. All’amico dott. Lucio S. Caruso della Pro Civitate di Assisi nel febbraio 1963 scrivevi: “Caro Caruso,vorrei spiegarle meglio per scritto, queloo che le ho confusamente confidato a voce. La prima volta che sono venuto da voi a Assisi, mi sono trovato accanto al capezzale il Vangelo: vostro delizioso-diabolico calcolo! E infatti tutto è andato come doveva andare: l’ho riletto – dopo circa vent’anni (era il quaranta, il quarantuno, quando, ragazzo, l’ho letto per la prima volta; e ne è nato «L’Usignolo della Chiesa Cattolica», - poi l’ho letto solo saltuariamente, un passo qua, un passo là, come succede…) Da voi, quel giorno, l’ho letto tutto di seguito, come un romanzo. E, nell’esaltazione della lettura –Lei lo sa, è la più esaltante che si possa fare! – mi è venuta, tra l’altro, l’idea di farne un film. Un’idea che da principio mi è sembrata utopistica e sterile <<esaltata>>. E invece no. Col passare dei giorni appunto e poi delle settimane, questa idea si è fatta sempre più prepotente e esclusiva: ha cacciato nell’ombra tutte le altre idee di lavoro che avevo nella testa, le ha debilitate, devitalizzate. Ed è rimasta solo lei, viva e rigogliosa in mezzo a me. Solo dopo due o tre mesi, quando ormai l’avevo elaborata – e mi era diventata del tutto fa miliare – l’ho confidata al mio produttore; ed egli ha accettato di fare questo film così difficile e rischioso, per me e per lui. Ora, ho bisogno dell’aiuto vostro: di Don Giovanni, suo, dei suoi colleghi. Un appoggio tecnico, filologico, ma anche un appoggio ideale. Le chiederei insomma (e, attraverso lei, con cui ho maggiore confidenza, alla «Pro Civitate Christiana») di aiutarmi nel lavoro di preparazione del film, prima, e poi di assistermi durante la regia.” (cf P. P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re. Medea, Garzanti 1991, p. 16).
Più tardi il Dottor Lucio Settimio Caruso in una intervista risponderà con sincerità a questa domanda: “Che impressione avete avuto di Pier Paolo Pasolini e quali sentimenti nutrite verso quest’uomo spesso considerato lontano dalla fede e dalla morale cristiana? Come avete risposto alle obiezioni mosse da alcuni giornali?” – Di Pier Paolo Pasolini abbiamo avuto un’impressione bellissima, come di ognuno che abbiamo la ventura di avvicinare. In ogni vo9lto umano vediamo infatti riflesso quello meraviglioso del Signore, in ogni anima scopriamo l’acquisto che Gesù ha fatto con il suo sangue. A quanti ci dicono che Pasolini oltre che incredulo è anche peccatore, rispondiamo umilmente che, se pur ciò fosse vero, non ci sembra questo un motivo per chiudergli la porta in faccia e negargli l’aiuto che ci ha chiesto. Gesù amò tutti, ma predilesse i pubblicani, i peccatori, i ladroni, e anche le povere creature cadute nella più angosciosa miseria morale, come la maddalena, l’adultera, la samaritana. Agli attacchi di certa stampa non abbiamo risposto, non è nelle abitudini della Pro Civitate Christiana polemizzare. Sommessamente però abbiamo osservato che se tutti fossero veramente cristiani, su ogni piaga umana non verseremmo aceto ma olio di bontà”.
In una tua nota giornalistica sul quotidiano “Il Giorno” del 6 marzo 1963 confessavi la tua vitalità creativa scatenata dalla lettura del vangelo di Matteo: “Perché io abbia cominciato un simile lavoro, poi, sarebbe un discorso ben più lungo, è facile immaginarlo. Dirò solo un fatto (sempre tecnico: e chi ha orecchi per intendere, intenda): appena finita la prima lettura del Vangelo secondo Matteo (un giorno di questo ottobre, ad Assisi, con intorno attutita, estranea, e, in fondo ostile, la festa per l’arrivo del Papa), ho sentito subito il bisogno di «fare qualcosa»: una energia terribile, quasi fisica, quasi manuale. Era l’«aumento di vitalità» di cui parlava Berenson – e ora nozione tanto cara alla mia «cerchia»: Soldati, Bassani, Bertolucci, Moravia… - l’aumento di vitalità che si concreta generalmente in un sforzo di comprensione critica dell’opera, in una sua esegesi; in un lavoro, insomma, che la illustri, trasformi il primo impeto pregrammaticale d’entusiasmo o commozione in un contributo logico, storico. Cosa potevo fare io per il san Matteo? Eppure qualcosa dovevo fare, non era possibile restare inerti, inefficienti, dopo una simile emozione che, così esteticamente profonda, poche volte mi aveva investito nella vita. Ho detto «emozione estetica». E sinceramente, perché sotto questo aspetto si è presentato, prepotente, visionario, l’aumento della vitalità”.
Il 5 aprile 1963 ti scrive il P. Domenico Grasso S. J., professore della Pontificia Università Gregoriana, e ti incoraggia nel tuo lavoro con sincerità e stima di amicizia: “Gentilissimo Dottore, desidero esprimerle anche per iscritto il piacere provato nel fare la sua conoscenza, della quale ringrazio il dott. Caruso. Avevo letto e sentito parlare di lei, facendomene un concetto non rispondente a verità. E’ sempre una gioia potersi ricredere e constatare con quanta verità il Vangelo ci dice di non giudicare. E’ sempre un rischio violare il mistero che circonda ogni uomo. In lei ho visto un uomo buono, in cerca di valori capaci di dare un senso alla vita. E’ questo l’unico vero problema che unisce tutti gli uomini e li fa apparire degli «accattoni». Tutti andiamo cercando nel nostro prossimo l’immagine di Dio, tanto difficile a vedersi, ma che pure costituisce l’unica ragione che lo rende degno di rispetto e di amore. Lei, forse non condividerà questo punto di vista, ma indubbiamente, glielo dico con franchezza, è presente nei suoi libri e nel film che ieri mi ha fatto vedere, molto più di quanto lei pensa. E poi tra noi c’è la figura di Cristo. Io credo che egli sia veramente il Figlio di Dio, perché solo in tale ipotesi è possibile spiegare la sua personalità. Lei non osa ancora dire tanto. Non importa: la persona di Cristo è tanto grande da meritare il più profondo rispetto anche nei suoi soli aspetti umani . Le auguro che la sua conoscenza di Gesù vada sempre più approfondita fino a scoprire interamente il suo mistero. Nel Vangelo troverà la via migliore per conoscere ed amare il nostro prossimo, specialmente il povero e il diseredato, perché nessuno l’ha conosciuto più profondamente di Gesù Cristo. Per il suo film non posso non ripeterle quanto le dissi a voce. Mi ha fatto una grande impressione e mi ha fatto pensare. La purezza delle sue intenzioni per me non lascia dubbi. Dalla stessa realizzazione credo sinceramente che non si possa tirare la conclusione di vilipendio alla religione. Le sue spiegazioni e, in particolare, il contatto avuto con lei mi fanno escludere la cosa nella maniera più evidente. Spero che questo primo contatto sia soltanto il primo. Per me sarà sempre un piacere discutere con lei dei problemi che interessano ogni uomo. Con i più vivi auguri per il suo lavoro, La prego di gradire la mia stima più sincera. Suo Domenico Grasso S. J.”.
Ci sono difficoltà da parte delle banche per mettere a disposizione del produttore Alfredo Bini gli ingenti fondi da impegnare nella impresa che si prospetta rischiosa non solo per il soggetto evangelico ma anche per le riserve morali ed artistiche nei tuoi confronti. Solo la Banca del Lavoro alla fine affronterà il rischio dell’impresa.
A maggio 1963 tu scrivi al fondatore della Pro Civitate Christiana D. Giovanni Rossi manifestando le difficoltà di un lavoro impegnativo quale è quello della sceneggiatura: “ Carissimo Don Giovanni, sono tre o quattro giorni che quasi non esco di casa, preso dal fervore e dall’angoscia del lavoro. Ho fatto quel che ho potuto, cioè poco più che degli affrettati appunti; spero che Lei e i suoi collaboratori possano leggere in questa lingua arida e tecnica, quello che c’è dentro, e di cui ho appena abbozzato il disegno. Intanto andrò avanti, e venerdì, ad Assisi, porterò con me la fine della sceneggiatura. L’abbraccio affettuosamente (la vedo ancora davanti agli occhi, lassù contro la ringhiera del giardino, che mi chiama e mi saluta: immagine che mi ha seguito in tutto il lavoro di questi giorni). E porga i miei affettuosi saluti anche a tutti i suoi amici della Cittadella. Suo dev.mo Pier Paolo Pasolini”.
Il 12 maggio 1963 il tuo amico Dottor Lucio S. Caruso scrive la sua lettera di approvazione e di incoraggiamento al produttore Alfredo Bini: “Caro Dottor Bini, il copione del «Vangelo secondo Matteo» l’ho letto tutto d’un fiato. Bellissimo ! la mia prima impressione è di stupore: possibile che l’autore sia quel Pasolini del quale alcuni giornali dicono tanto male? Non solo siamo nella più stretta aderenza al Sacro Testo, non solo ci troviamo nella più completa ortodossia etica e dogmatica, ma abbiamo un lavoro d’un acume esegetico fuor del comune. Nei prossimi giorni conoscerò il giudizio di Don Giovanni Rossi e quello di illustri teologi quali Padre Favaro, il Prof. Grasso, il Prof. Angelo Penna. Mi consenta ora di anticipare una considerazione a quanto potrò più esattamente dirle a voce: mi sembra che sia un film da farsi, o almeno da tent arsi. Tutto dipende ora da Pasolini, dalla sua fede. Sarà capace Pasolini di alimentare dentro di sé una grande fiammata di Fede? Per fare un film su Gesù occorre innanzitutto credere in Gesù, altrimenti ne viene fuori un’opera fredda e accademica. Stando ai fatti, finora abbiamo ricevuto dal dott. Pasolini delle notevoli assicurazioni e un ottimo copione: tutto questo mi sembra di buon auspicio”.
Il 15 maggio 1963 Don Giovanni Rossi scrive allo stesso Alfredo Bini approvando non solo l’iniziale sceneggiatura che tu gli hai fatto recapitare ma dando suggerimenti per un viaggio di esplorazione della terra di Gesù, necessario per la realizzazione del film: “Illustre Dottor Bini! Ho esaminato con i miei volontari e con persone competenti di Roma e di Milano il copione «Il Vangelo secondo Matteo» e l’ho trovato buono, privo di errori di Fede e di Morale. Occorre apportare soltanto qualche ritocco, cosa che credo il regista abbia già fatto. Di buon grado accolgo la richiesta sua e del dott. Pasolini di far guidare il sopraluogo in Terra Santa da un sacerdote della Pro Civitate Christiana. Anzi mi sembra molto utile. Probabilmente potrà venire Don Andrea Carraro. Certo non posso giudicare un film prima ancora che venga girato, però è con viva fiducia che prendo atto della serietà con cui tutti i preparativi si sono svolti finora e penso che, sulle assicurazioni date, tutto potrà concludersi nel migliore dei modi. Gradisca cordiali saluti Don Giovanni Rossi”.
Mi piace rileggere, prima di visionare ancora una volta il tuo capolavoro, i criteri ispiratori del tuo film così come li comunicavi in una lettera del giugno 1963 al tuo produttore Alfredo Bini particolarmente in ansia circa i rischi economici dell’impresa:
«Caro Alfredo, mi chiedi di riassumerti per scritto, e per tua comodità, i criteri che presiederanno alla mia realizzazione del "Vangelo secondo San Matteo". Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre negato al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di Cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora "divina" è al limite della metaforicità, fino ad esser idealmente una realtà. Inoltre: per me la bellezza è sempre una «bellezza morale»: ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica; il solo caso di "bellezza morale" non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentata nel Vangelo. Quanto al mio rapporto «artistico» col Vangelo, esso è abbastanza curioso: tu forse sai che, come scrittore nato idealmente dalla Resistenza, come marxista ecc, per tutti gli anni Cinquanta il mio lavoro ideologico è stato verso la razionalità, in polemica coll’irrazionalismo della letteratura decadente (a cui mi ero fermato e tanto amavo). L’idea di fare un film sul Vangelo, e la sua intuizione tecnica, è invece, devo confessarlo, frutto di una furiosa onda irrazionalistica. Voglio fare pura opera di poesia, rischiando magari i pericoli dell’esteticità (Bach e in parte Mozart, come commento musicale; Piero della Francesca e in parte Duccio per l’ispirazione figurativa; la realtà, in fondo preistorica ed esotica del mondo arabo, come fondo e ambiente). Tutto questo rimette pericolosamente in ballo tutta la mia carriera di scrittore, lo so. Ma sarebbe bella che, amando così svisceratamente il Cristo di Matteo, temessi poi di rimettere in ballo qualcosa. Tuo Pier Paolo Pasolini».
Qualche giorno fa ho rivisto sul canale Raistoria il tuo viaggio in Terra Santa e non ti nascondo l’emozione derivante dal fascino del bianconero e del paesaggio ormai scomparso di Gerusalemme, Nazareth, Betlemme, Cafarnao, ecc. Certamente ricordi questo tuo sopraluogo in Terra Santa fatto dal 27 giugno all’11 luglio 1963 in compagnia di D. Andrea Carraro, dottor Lucio Settimio Caruso, Walter Cantatore e dell’operatore Aldo Pennelli. Da questo viaggio ti ripromettevi due finalità. La prima era quella di verificare in loco quello che nella sceneggiatura avevi intuito, immaginato quasi ascoltato di cose e luoghi. La seconda verificare la possibilità di girare il film nei luoghi in cui i fatti si erano svolti.
Ritorni a Roma con sei lunghi rulli di pellicola girata sui luoghi tradizionali dei fatti raccontati dall’esattore delle tasse (pubblicano) di Cafarnao Levi-Matteo ricco soltanto di una “impressione estrema di desolazione, di umiltà, di povertà” deciso a non fare assolutamente uso di quello che avevi visto e registrato in Israele e Giordania perché “c’è sempre qualcosa di troppo moderno e industriale”, ma deciso a realizzare il tuo film.
Con attenzione intelligente ritrovi lo scenario autentico e primitivo del Vangelo proprio nell’Italia Meridionale e ti soffermi a Matera, Crotone e a questo proposito annoti: “Il monte delle Beatitudini sembra uno dei luoghi più desolati della Calabria e delle Puglie (…) Mi aspettavo luoghi favolosi; ho avuto una lezione di umiltà, la vita, la morte simili a quelle sullo Jonio, fra Cutra e Crotone, ci sono tipici uliveti pugliesi (…) Bari vecchia può essere il luogo di uno dei miracoli di Cristo (…) Ma mi occorrerà una grotta dell’Annunciazione sulla quale non sia in costruzione una chiesa moderna, e dovrò trovare una Betlemme “vera” che sia il surrogato della Betlemme di oggi (…) forse l’unico problema sarà la ricostruzione del deserto, con questa luce, questa immensità di orizzonti, queste zolle spelacchiate, che ricordano un po’ l’Etna (…) e la ricostruzione delle rive del Mar Morto, uno dei pochissimi paesaggi che abbia in sé la grandiosità, un tremendo paesaggio lunare”. Sei “scandalizzato” e contrariato dalle grandi chiese che sono state costruite sui luoghi dell’annunciazione, della nascita, della morte di Gesù (ti riferisci alla basilica in costruzione a Nazareth su progetto dell’architetto italiano Giovanni Muzio e basilica della natività a Betlemme costruita dall’imperatore Giustiniano sulla precedente voluta da Costantino e poi quella del S. Sepolcro a Gerusalemme che racchiude il Calvario e l’edicola dell’Anastasis).
Il tuo amico Dottor Lucio S. Caruso annota con puntualità le tue reazioni: ”Davanti alla basilica costantiniana (!!?) del Santo Sepolcro mi ha colpito un leggero moto di Pasolini, come di ripulsa. Il motivo – l’ho capito subito e poi lui stesso me lo ha confermato – è nel suo voler ricercare, al di sotto delle stratificazioni architettoniche successive, il volto della Terra Santa quale Gesù lo vedeva. Mi sembra sempre più chiaramente che il film vuol farlo nella viva prospettiva del contemporaneo, non in quella svaporata del lontano postero che attinge alla ricostruzione storica, o che indulge alle fantasie popolari” Stai attentissimo alle puntuali annotazioni esegetiche di D. Andrea Carraro con il quale avverti una cordiale sintonia “anche perché don Andrea è veneto, parla con accento veneto” e con la sua “educazione cattolico-veneto-liturgica” è in grado di prefigurare le reazioni del pubblico cui sarà dato il film. Tu stai attento a scegliere lo stile giusto: “Gerusalemme è indubbiamente grandiosa e sublime. Se il film sarà semplice e scandito, in precedenza, all’arrivo a Gerusalemme dovrò mutare registro, per riassorbire l’allegria e la varietà dei luoghi sottoproletari e poveri e la grandiosità e la grandiosità di una folla e di una capitale”.
Ti rendi conto che non potrai girare il film in Israele perché sarà difficile recuperare delle persone disposte a fare le comparse perché impegnate nel lavoro industriale e poi le facce della gente di Giordania non ti convincono perché “Le facce degli arabi sono precristiane: indifferenti, allegre, animalesche, e un po’ funeree, su di esse non è passata, neanche da lontano, la predicazione di Cristo”.
Non puoi fare a meno di apprezzare il contributo del biblista D. Andrea Carraro che così viene ricordato dal Dott. Lucio Caruso: “Don Andrea con precisione di studioso dava spiegazioni traducendo in linguaggio semplice la sua complessa terminologia esegetica. Quasi non riconoscevo più in lui il mio severo professore di Bibbia. Mai una concessione al sentimento, neppure nell’inflessione della voce. Dava soltanto una spiegazione a quei luoghi, faceva udire la loro voce. E dall’espressione dei volti mi accorgevo che a parlare all’intimo di ognuno erano proprio quelle pietre che duemila anni fa furono bagnate dal sangue dell’Innocente. Via dolorosa: per qui è passato Gesù, l’uomo-Dio, con la croce sulle spalle in mezzo a una umanità allora come oggi indifferente. Ho chiesto a Pasolini se ancora gli sembrasse vera la frase del Battista: “In mezzo a voi è qualcuno che voi non conoscete” Mi ha risposto di sì”.
Vedendoti al lavoro l’amico Lucio Caruso non può fare a meno di sottolineare il tuo completo impegno, senza attenzione alla stanchezza e al caldo: “Pasolini ha una capacità di lavoro impressionante. Sembra non accorgersi del caldo atroce, anzi appare freschissimo, teso nell’attenzione, pronto a cogliere i più minuti particolari e a commentarli. Mi ha fortemente sorpreso in lui un interesse, più che sociologico, psicologico. Di fronte a questa gente misera, in ambienti malsani, lui non pensa agli enormi lro problemi sociali, alla mortificazione di tutta questa cenciosa comunità presa nel suo insieme, piuttosto sente il dramma del singolo individuo, il suo mondo spirituale, il rapporto individuo-alimentazione, individuo-stracci, ricerca i sintomi esteriori del loro fatalismo orientale, rileva che l’allegria della gente di qui poggia su un sottofondo o di mestizia o di bestialità, mai di serena gioia. Abbiamo visitato l’orto del Getsemani e quindi abbiamo proseguito per Emmaus, a un’ora d’auto. Il Getsemani è il luogo della paura e dell’angoscia di Gesù, qui sudò sangue, fu tradito da Giuda, abbandonato dagli apostoli. Pasolini ha ammiratogli ulivi, enormi, millenari, con i loro tronchi accartocciati e contorti che sono gli stessi di duemila anni fa. Ha parlato degli ulivi e non d’altro. Sembra un atteggiamento di difesa di fronte alla forte carica spirituale che questi luoghi sembrano emanare”.
Dinanzi alle acque del Giordano avverti il tuo imbarazzo di ateo estetizzante e lo confesserai ad Alfredo Bini: “Essere qui brutalmente e fisicamente davanti al Giordano mi dà un senso di imbarazzo e di mancanza di rispetto: sono imbarazzato soprattutto per ragioni estetiche”. L’amico Lucio Caruso annota la tua reazione nell’orto degli ulivi: “Gli ho detto che proprio qui, nell’orto del Getsemani, Gesù “si è fatto peccato”, si caricò cioè di tutti i nostri peccati per poi espirali sulla croce. Nel suo sguardo mi è sembrato di notare un lampo di commozione.”. Dinanzi all’edicola che commemora l’Ascensione tu hai un pensiero che apre la responsabilità degli uomini nei confronti della storia: “E’ il momento più sublime di tutta la storia della Chiesa, il momento in cui Egli ci lasciò soli a cercarlo”.
Non riesce a smorzare il tuo entusiasmo neanche la lettera del 18 settembre 1963 che il Prof. Romano Guardini, l’autore del brillante saggio cristologico “Il Signore”, e perito al Concilio Ecumenico Vaticano II, ti scrive. Egli con sincerità ti esprime tutta la sua perplessità circa l’intervento dell’arte pubblicitaria (film, teatro, ecc.) sul Vangelo: “Gentilissimo Dottore, ho ricevuto il copione che mi ha spedito. Per quanto riguarda questo progetto, mi rincresce di non poter dare un giudizio positivo. Devo parlare chiaramente? Il trattamento che le cose sacre ricevono oggi dalla pubblicità non è certo tale da essere gradito a Dio. Io ritengo impossibile illustrare con un film la vita di Gesù. Non oso ad esempio immaginare in che modo nella realizzazione del film la persona di Cristo potrà essere fedelmente resa dal suo sfortunato interprete. Un po’ di «senso del mistero» mi sembra necessario. Perciò credo che sarebbe meglio non realizzare il progetto”.
Un sentimento sincero di gratitudine mi accompagna in questo dialogo epistolare perché con il tuo Vangelo tu aiuti molti a continuare nella speranza questa ricerca e di questa impresa sei stato un intelligente apripista. Avevi dato un saggio del tuo originale modo di tradurre il Vangelo in immagini realizzando nel 1963 l’episodio “La ricotta” del film «RO.GO.PA.G.» in collaborazione con i registi Roberto Rossellini, Jean Luc Godard, Ugo Gregoretti. ”Un poveraccio, Stracci, che pur affamato si è privato del modesto pranzo destinato dalla produzione alle comparse per darlo alla sua famiglia, trova una ricotta e la mangia avidamente col risultato che, appeso sulla croce dove impersona uno dei ladroni, muore davvero di indigestione. Non si poteva esprimere meglio la condanna di un certo cinema finto evangelico, contrapponendovi la realtà dei poveri, degli emarginati, di un Vangelo autentico da rivivere tra gli ultimi.” (cf G. MARZI, Incontri con gli scrittori: Pier Paolo Pasolini, Editori Riuniti, Roma 1965).
Il 4 gennaio 1964 in una breve lettera al produttore Alfredo Bini il P. Arcangelo FavaroS.J. del Centro Culturale San Fedele di Milano dava il suo positivo giudizio sulla tua sceneggiatura: “Carissmo dr. Bini, ho letto la sceneggiatura del «Vangelo secondo Matteo» che Pier Paolo Pasolini intende affidare allo schermo. L’ho trovata aderente e rispettosa del testo sacro. Se è geniale l’interpretazione dell’artista devo dire anche che è coraggiosa l’iniziativa del produttore. Sono certo che nel passaggio dal testo allo schermo la poetica di Pasolini saprà darci un’opera d’arte veramente degna del tema affrontato e m’auguro che la accoglienza del pubblico dia anche a lei la meritata soddisfazione. Da parte mia sono felice della modesta collaborazione che è stata accolta dall’autore con larga fiducia”. (Pier Paolo Pasolini, Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, ed. Garzanti, Milano 1991, p. 267).
Finalmente ti decidi e il 24 aprile 1964 inizi le riprese. Tu sei sincero nel manifestare le tue personali motivazioni di questo gravoso impegno: “C’è aria di crisi dappertutto e evidentemente c’era anche in me. In me ha assunto questa specie di regressione a certi temi religiosi che erano stati costanti, però, in tutta la mia produzione. Non mi sembra ci si debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del ’42. (…) Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l’ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m’accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo…E’ un momento di un filone che percorre tutta la mia storia, c’è di mezzo la mia opera e la mia vita. E poi, completamente nuovo, dal punto di vista interno, c’è che, mentre le altre mie opere religiose erano assolutamente private e stilisticamente squisite4, «decadenti», come si vuole dire, qui il problema religioso non è un problema privato, ma è oggettivizzato nella fede, nel mito, nella mitologia altrui … Così, da mio che era, il problema religioso si è rovesciato nella mitologia, e nella religione altrui, trascinando con sé una serie di elementi espressivi, di valori nuovi o rimessi in discussione”.
Più volte sei stato accusato di essere un marxista atipico, magari non troppo ligio alla politica culturale dettata da Via delle Botteghe Oscure, ma hai sempre guardato con simpatica la lezione di Antonio Gramsci sulla cultura “nazional-popolare”: “Ora questo film può essere veramente nella linea «nazional-popolare» di cui parlava Gramsci. Ci son cose raffinate, nei costumi, nella musica, nei paesaggi; ci sono elementi cosiddetti “squisiti”, e forse “decadentistici”, nel senso consueto del termine, con grandi afflati di carattere nazional-popolare. E’ un racconto con un fondo favoloso da un lato, ideologico dall’altro, che non ricerca la fedeltà storica, la fedeltà filologica, la ricostruzione, il mondo nazionale ebraico del tempo”. Tu al metodo della «ricostruzione» preferisci quello della «sostituzione» e in questo caso recuperi sia la categoria della attualità sia quella a te cara della provocazione sociale: “Ripensandoci, ho capito che c’erano delle ragioni profonde, che sono quelle cui accennava un allievo, cioè la liberazione dell’ispirazione religiosa in un marxista, dagli elementi spurii che avevano ispirato Accattone, cioè la liberazione della disperazione che era in Accattone e che diventa ispirazione a sé stante. Il Vangelo secondo Matteo dovrebbe essere secondo me un violento richiamo alla borghesia stupidamente lanciata verso un futuro che è la distruzione dell’uomo, degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi dell’uomo…. Non ho aggiunto una battuta e non ne ho tolta nessuna, seguo l’ordine del racconto tale e quale come in S. Matteo, con dei tagli narrativi di una violenza e di una epicità quasi magiche presenti nel testo stesso del Vangelo, per cui questo film sarà stilisticamente una cosa molto strana. Infatti a grandi pezzi di film muto – per lunghi tratti i personaggi non parlano, ma devono rappresentare quello che dicono soltanto attraverso i gesti e le espressioni come si faceva nei film muti – seguono momenti invece in cui per venti minuti di seguito Cristo parla”.(cf Pier Paolo Pasolini, Colloquio, in Bianco e Nero, n. 6, giugno 1964).
Mi piace che nel tuo film il principio della «sostituzione» ci permette di attualizzare il messaggio rivoluzionario del Vangelo di Matteo: “Il mondo dei ricchi e dei potenti, dei feudatari, gli “Erodi”, l’ho sostituito con quello dei potenti meridionali, con le loro sedi medioevali, i castelli pugliesi, svevi e normanni. E questo è l’aspetto più clamoroso e più appariscente del realismo del film, io pensavo sempre a qualcosa di immediato e di riconoscibile, per riportare quanto c’è di antico e di passato a esperienze nostre”.
Luisa Palmisano puntualizza questo tuo interpretare la storia evangelica come un «mito» sia pure sottolineando in esso l’universalità e l’attualità: “Si trattava cioè di liberare fatti e personaggi dal loro contesto storico per farli diventare frammenti ed emblemi di una storia fuori del tempo, vicenda metastorica e universale, vera oggi come ieri (un riferimento per esempio lo vediamo nella partenza dall’Egitto visto come un esodo di emigrati meridionali, oppure i riferimenti alla teppaglia fascista nei sicari di Erode, ecc.) Per l’ateo Pasolini, questi motivi avevano lo stesso valore ideologico e simbolico di una favola o di un miro; non era sottolineata infatti la loro validità a livello storico. Egli voleva far intendere l’opera come un racconto epico-lirico in chiave nazional-popolare, cioè come la storia di un mito religioso, quale fu vissuto da un popolo in miseria, oppresso da soldati stranieri e da una prepotente classe dirigente, senza tuttavia riferimenti storici ben precisi. D’altra parte, Pasolini, non credendo alla divinità di Gesù, non comprendendone cioè la vera dimensione soprannaturale e di conseguenza anche la sua autentica umanità, non poteva che rappresentare la vita nella prospettiva di un «mito popolare». Pasolini propone un Cristo-mito e non un Cristo-Dio, cioè un leader che ha sì operato in un determinato contesto storico, ma che può essere preso come esempio da chi oggi vuole combattere come lui in favore degli oppressi. Nel film di Pasolini, il Cristo è visto come mito nel suo agire storico, perché ha reso tangibile, tra i poveri e gli oppressi, l’ideale di giustizia e di riscatto, idee destinate a perpetuarsi nel tempo grazie all’annuncio sempre coerente del suo messaggio che trova profonda simpatia e larga accoglienza tra le classi più diseredate della terra. Altri elementi nel film confermano questa interpretazione mitica della vicenda di Gesù: per esempio si faccia riferimento alla recitazione dei non attori, che spesso di muovono e pronunciano le battute come se dovessero rappresentare una finzione scenica; si pensi anche al modo in cui sono rappresentati interventi del soprannaturale, come le apparizioni dell’angelo, o i miracoli; in modo così dimesso da togliere loro il senso originario: l’angelo, per esempio, è un “deus ex machina” esterno e provvidenziale, che appare e scompare senza suscitare meraviglia in chi lo incontra, come avviene nelle favole” (cf. LUISA PALMISANO, Il Cristo in prima visione: La figura del Cristo nei films di Pasolini, Jewison, Rossellini e Scorsese, tesi discussa nell’anno accademico 1993-’94 presso Istituto Superiore di Scienze Religione «Odegitria» di Bari, pp. 55.56).
Con questa annotazione circa la lettura mitologica apro il capitolo delle deficienze della tua opera. Proprio la stessa Luisa Palmisano nella sua analisi annota: “Pasolini suole rendere visibile l’efficacia di un messaggio di giustizia e di riscatto a favore dei deboli e degli oppressi, contrapponendo ai primi la superbia, l’ottusità e la violenza delle classi politico-religiose dominanti. A tal fine, nell’ambito del testo evangelico, egli sottolinea soprattutto i discorsi di Gesù, scegliendo quelli prettamente sociali e in contrapposizione tra di loro. Pasolini, infatti, dei cinque grandi discorsi in cui Matteo articola la sua catechesi cristologica ed ecclesiologica, ne omette due, di cui il primo riporta le parabole (Mt 13; 15, 1-30) ed il secondo che è il grande discorso escatologico (Mt 24; 25). Le arbitrarie omissioni operate dal regista riducono il messaggio evangelico ad una proposta morale di indubbia efficacia rivoluzionaria,, ma poco rispettosa delle intenzioni della Parola che si è fatta carne. Inoltre sono stati omessi la maggior parte dei miracoli e sono stati tolti dal discorso della montagna tutti gli accenni al matrimonio e al celibato” (cf idem, o. c.,, pp 59-60) Non c’è che dire tu sei particolarmente violento nei confronti della borghesia e tu, pur essendo borghese per educazione e raffinatezza di gusto, ti sei sentito respinto dalla borghesia fin dagli primi anni del tuo impegno letterario e politico. Addirittura, stando al giudizio della stessa Luisa Palmisano, opponi ”borghesia (modo di vivere borghese) e religione (modo religioso di vivere) perché assolutamente incompatibili tra di loro. Borghesia nella tua concezione vuol dire attaccamento al possesso, e la religiosità è il contrario: esige il distacco dal possesso. “La vera religiosità è eredità dei poveri; di chi lo è per nascita, o di chi ha il coraggio di diventarlo”. Non ci si può dimenticare che nei tuoi film esprimi questa concezione epico-religiosa: “Quindi anche e soprattutto in personaggi miserabili, personaggi che sono al di fuori di una coscienza storica e, nella fattispecie, di una coscienza borghese, questi elementi epico-religiosi giocano un ruolo molto importante. La miseria è sempre, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, diun sottoproletario, sono sempre in un certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali. Questo mio modo di vedere il mondo dei poveri, dei sottoproletari, risulta, credo, non soltanto dalla musica, ma anche dallo stile stesso dei miei film”.
Nel Vangelo di Matteo abbiamo la controprova di questa tua scelta ideologica che è sposata anche dal Cristo, che è seguito da apostoli poveri e che nella vita e nella predicazione si fa avvocato della causa dei poveri e degli emarginati.
Qualche annotazione estetica sul tuo film la permetterai. Sul piano figurativo non ti sottrai al fascino di Piero della Francesca e Masaccio che avevi studiato e amato a Bologna con la guida di Roberto Longhi.Non affidi ad un musicista di professione la composizione di una colonna sonora specifica ma recuperi con intelligenza e buon gusto musiche di Johann Sebastian Bach, Amadeus Wolfgang Mozart, Serghieji Prokofiev, cui unisci la Missa Luba, e vari canti popolari, coordinati ed eseguiti sotto la direzione di Luis Bacalov e Carlo Rustichelli. Indimenticabile la splendida fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli e il montaggio di Nino Baragli.
Ti sei posto il problema dell’immagine di Gesù Cristo e ci hai pensato molto: “Non volevo un Cristo dai lineamenti morbidi, dallo sguardo dolce, come nell’iconografia rinascimentale. Volevo un Cristo il cui volto esprimesse anche forza, decisione, un volto come quello dei Cristi dei pittori medievali. Una faccia, insomma, che corrispondesse ai luoghi aridi e pietrosi, in cui avviene la predicazione.” Hai scartato le ipotesi che ti si presentavano: un poeta, un uomo di lettere, un poeta americano o russo, uno sconosciuto attore tedesco. Sei rimasto folgorato dalla visita che ti ha fatto lo studente spagnolo Enrique Irazoqui che ti chiedeva informazioni sul tuo romanzo “Ragazzi di vita”: “Appena vidi entrare nello studio Enrique Irazoqui fui certo di aver trovato il mio Cristo. Aveva lo stesso volto bello e fiero, umano e distaccato, dei Cristi dipinti da el Greco. Severo, perfino duro in certe espressioni”. Come non rimanere emozionati dinanzi alla bellezza acerba e pensosa di Margherita Caruso cui affidi il ruolo di Maria negli episodi di Nazaret e di Betlemme e alla dolorosa e composta immagine della Madre ai piedi della croce interpretata dalla tua mamma Susanna Pasolini.
Una ultima annotazione critica riguarda proprio la figura del Cristo che tu presenti e la ricavo dall’analisi del tuo film fatta da D. Vito Marotta: “Il Cristo di Pasolini è un uomo battagliero ed ardente, difensore dei poveri, degli umili, degli oppressi, “ha la salda tempra di uno strenuo lottatore per la giustizia umana contro le insidie e le falsità dei governanti, dei Farisei, dei Sacerdoti dell’Antica legge”. Pasolini ha fatto un Cristo non duro, ma bizantino, coerente con la rivoluzione che sosteneva nel suo tempo, nello spirito di Matteo. Si tratta di un Cristo che è venuto sula terra per risolvere questioni fondamentali, per svegliare le coscienze con la bontà verso i semplici e le sferzanti parole del suo ammonimento verso i farisei. Per quel momento storico sono da considerarsi rivoluzionarie le predicazioni nelle quali si dichiara: “Fate agli altri quanto gli altri volete che facciano a voi”; “Non accumulate tesori su questa terra”; Nessuno può servire due padroni: Dio e il denaro”. La morte di Gesù con quel suo grido disperato sulla croce, non segna la sua sconfitta ma l’inizio di una rinascita sociale. Il film non volendo negare od offendere la divintià del Cristo, l’ha messa in ombra e non certo l’ha indicata con quel risalto che un film sulla figura di Cristo esigeva se voleva essere veramente fedele a quella tracciata dal Vangelo. Nell’opera pasoliniana non c’è stato un recupero del valore religioso del vangelo di Matteo da parte di un artista ateo, che pur desiderava recuperare il valore universale del Cristo attraverso la poesia ritenuta categoria valida d’interpretazione” (cf o.c. pp. 92-93).
Se permetti ti devo dire grazie anche perché sei riuscito a far recitare alcuni tuoi amici del mondo delle lettere: Alfonso Gatto (Andrea), Enzo Siciliano (Simone), Natalia Ginzburg (Maria di Betania).
Alla fine ti devo dire ancora grazie per la dedica che hai voluto fare della tua opera al santo papa Giovanni XXIII, di cui avvertivi il fascino di uomo di fede venuto dal mondo umile dei contadini del bergamasco: «Alla cara – lieta – familiare ombra di Giovanni XXIII».
La prima visione del film l’hai offerta ai padri del Concilio Vaticano II e al di là di qualche perplessità già sopra annotata, essi hanno apprezzato la tua sincerità di artista e il tuo coraggio. Penso che non ti dispiacerà conoscere la valutazione del tuo film fatta dal <<prete scomodo>> D. Lorenzo Milani in una sua lezione ai ragazzi di Barbiana nell’anno 1965: “In quanto a Pasolini, il suo film dimostra in modo discutibile la sua assoluta buona fede. Basti la prova seguente: le scene mute sono molto belle per loro natura, e fanno fare ai protagonisti una figura di persone spirituali ed elevate. Ora Pasolini è stato così severamente fedele al testo di Matteo, che non ha voluto aggiungergli neanche una parola. C’è una scena, tra la mamma di Salomè e sua figlia, in cui starebbe molto bene farle chiacchierare a scemine parlando di moda e di ballo cosi accentuando il contrasto tra il silenzio imposante (francesismo che voi non dovete usare) del Battista in carcere. Pasolini, per non inventare un dialogo che nel Vangelo non c’è, le fa star zitte in un silenzio che le fa parere spirituali. Di questi particolari che depongono a suo favore ce n’è un monte. Serio, onesto, religioso, assolutamente alieno dalla ricerca di popolarità a buon mercato.vi basti sapere per esempio che il cine era vuoto: su tremila abitanti di Borgo vi saranno stati cinquanta presenti più noi. Era l’unica sera in cui veniva dato il film.
Viceversa in tante cose il film è difettoso: per esempio il classismo elementare. Sapete bene che anch’io vi ho insegnato così, ma dividere così semplicemente il mondo in ricchi tutti cattivi e poveri tutti buoni, non è certo quello che vi ho insegnato io. E tanto meno il Vangelo che, nella maggioranza dei casi, fa passare male i ricchi, e durissimamente. Ma quando poi è l’ora della Passione e i poveri sono scappati tutti, il fatto è che a seppellirlo c’erano solo due ricchi: Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. Il Vangelo non è così semplicistico e a tesi come Pasolini. Da tacere questo particolare. Meravigliosi sono invece i visi che si vedono in primo piano, scelti benissimo i personaggi. Ora vi lascio perché la famiglia mi sta facendo un tale chiasso d’intorno che non so cosa scrivo né cosa ho scritto”.(cf NEERA FALLACI, Dalla parte dell’ultimo –Vita del prete Lorenzo Milani, Milano Libri Edizioni, Milano 1977, pp. 371-372)
Personalmente ti devo dire che più di una volta ho suggerito la proiezione del tuo film “Vangelo secondo Matteo” a differenza di quello più oleografico, cioè di grande rilievo estetico, e ecclesiasticamente corretto, e quindi utilizzato quale sussidio catechistico, realizzato dopo qualche anno, (1977) da Franco Zeffirelli.
Vorrei concludere questa lettera con la riflessione di Carlo Maria Ossola sul tuo “profetismo”, perché “si sbilancia oltre la rasserenata compiutezza delle ideologie: supera ogni finalismo della storia prevedendo la fine della storia, e intanto della propria. Nessun altro poeta come Pasolini ha messo in scena, costantemente provandola e riprovandola in parole come sarà nei fatti, la propria morte: ”Stesura in ‘cursus’ di linguaggio ‘gergale’ correte, dell’antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte: (…) sono come un gatto bruciato vivo, / pestato dal copertone di un autotreno” (Una disperata vitalità).
Hai lottato contro la borghesia e hai voluto ammainare la sua bandiera, cioè il pensiero laico-liberale che ti sembrava la continuazione del Potere e non la pienezza della verità:
“Quelli di voi che possiedono un cuore
Votato alla maledetta lucidità,
vadano nei laboratori, nelle scuole,
a ricordare che nulla in questi anni ha
mutato la qualità del conoscere, eterno pretesto,
forma utile e dolce del Potere, Non mai Verità…
Vadano , tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli,
dai Valletta, dai potenti delle Società
che hanno portato l’Europa sulle rive del Po:
è giunta per ognuno di loro l’ora che non ha
proporzione con quanto ebbe e quanto odiò”. (Vittoria)
Così ti ritrovi specialmente con il tuo “Vangelo secondo Matteo” a promuovere un sogno di riscatto sociale insieme ad altri “profeti scomodi”: “Erano gli anni di Barbiana e tra poco di Lettera a una professoressa, l’utopia di un’eguaglianza fatta non per accumulo (produzione e consumo: la vagheggiata affluent society), ma per condivisone dell’essenziale: l’Italia di Pasolini e don Milani, Danilo Dolci e padre Turoldo, e anche – sia non indebito il paragone – dei papi veneti del Concilio (S. Giovanni XXIII), papi degli umili. Quella via, via di parola e di pane, di poveri e giustizia; fu l’orizzonte scomodo di Pier Paolo Pasolini”. (cf Carlo Maria Ossola, Pier Paolo Pasolini, in www.treccani.it/enciclopedia).
Caro Pier Paolo Pasolini, metto fine a questa lunga lettera che voleva essere un incontro con te nella triste ricorrenza del quarantesimo anniversario della tua tragica morte ma anche un invito a non dimenticare la tua lezione culturale di grande valore sociale perché hai preferito sempre la verità alle combines dei potenti.