FRANCO MIRIZIO E I FUGGITIVI, ANTICHI, FRANCESI. Video
- Dettagli
- Pubblicato Mercoledì, 13 Aprile 2011 00:19
- Scritto da Flavio Nicola Delvecchio
Riportato alla luce un ulteriore tassello di storia locale grazie all’estro del cantautore rutiglianese Franco Mirizio. Stavolta non soltanto leggenda e tradizione o stralci di vita vissuta, ma un accadimento autentico, restituito alla gente mediante le frenetiche melodie della canzone popolare. L’arrangiamento suggestivo è affidato al sodalizio del cantautore con il gruppo “Storie del vecchio sud” degli emergenti Carlo Porfido al violino, Uccio Renna al bouzouki, Francesco Laforgia al tamburello ritmico.
Il compaesano Mirizio, autore di canzoni in vernacolo rutiglianese e dell’accompagnamento ai brani, non è nuovo alle scene e alle sorprese. È da anni addentrato nell’universo della musica folk, dopo un’iniziazione musicale di tutt’altra specie da cui però seppe cogliere il senso più profondo. La sua esperienza prese le mosse dalle sfumature melodiche della west cost. Da qui proviene la sua passione; è grazie ai primi arpeggi accennati che subodorò e riconobbe la personale inclinazione a scendere per le strade e fra la gente comune con una chitarra fra le dita.
Gli accadde qualcosa di simile a ciò che suggestionò i cantanti del “folk di città” negli Stati Uniti. Quella generazione di singer-songwriter a cui si ispirò alla metà del ‘900 lo stesso Bob Dylan, per quella loro bizzarria di recuperare originarie canzoni anonime nate in ambiente rurale comunitario e farne canzoni d’autore. È da lui che Mirizio ha tratto il piacere di vagare per la sua terra, rigirandola in lungo e in largo con un’armonica a bocca ed una chitarra.
Ma il contesto paesaggistico è qualcosa di abissalmente differente dalle sterminate praterie americane, i rodei del lontano ovest, le elettriche metropoli d’oltreoceano. I suoni, i colori, i sapori sono quelli della sua terra natia, di quella terra di Puglia delle interminabili controre estive, delle processioni del santo patrono, dei lavori agricoli, delle antiche tradizioni della civiltà contadina, delle dicerie di paese, dei proverbi sempre a portata di mano.
Non a caso nell’originalissima ultima sua fatica esordisce con un saggio di meridionalità genuina. Caratteristici lazzi indirizzati agli abitanti dei paesi limitrofi aprono “C so i frangeis” (Chi sono i francesi); una carrellata di bonario campanilismo che dalla notte dei tempi stuzzica l’inventiva dei buontemponi del paese fra queste contrade apule. Il vicino di casa va sempre “soprannominato” per la sua specificità; ma spesso ne si mettono in risalto i vizi, un po’ per svalutarli un po’ per attacar brighe.
Teste dure sarebbero i molesi, voraci i baresi, malandrini i carbonaresi e immancabilmente “incomprensibili” i nojani. L’epiteto di “wawini” impresso dai rutiglianesi ai cittadini della vicinissima Noicattaro proverrebbe dal fastidio alle orecchie provocato dalla loro parlata molto nota per la cadenza grossolana, strascinata . Si vede che i rutiglianesi ricercavano con insospettabile snobismo l’eufonia, guardando ad oriente, agli antichi Greci che si inventarono la parola “barbari” (da bar-bar) per qualificare gli stranieri non greci proprio per il biascicare e farfugliare delle loro lingue oscure rispetto alla musicalità dell’idioma ellenico.
Eppoi finalmente i Rutiglianesi, “accendi pagliai”. È il la per la rievocazione dell’evento storico. È probabile che la nomea di “attaccabrighe” non derivi da un’espressione metaforica ma, più alla lettera, dalla celebre “beffa dei falò ” consumata a Rutigliano, all’epoca delle guerre napoleoniche.
LA STORIA
Siamo al limitare del Settecento, e in tutta Europa infiammano le guerre fra francesi e contingenti stranieri come prosecuzione della rivoluzione francese in territorio extranazionale. Anche in Italia vennero fondate una serie di repubbliche, il meridione venne sottratto ai Borbone e fu istituita la repubblica partenopea.
Il passaggio di guarnigioni francesi per queste contrade, nel maggio del 1799, ci è tramandato dal canonico e storico rutiglianese Lorenzo Cardassi (“Rutigliano…” 1877). Nel periodo in esame le città della terra di Bari versavano in una condizione angosciosa, minacciate sia dai repubblicani, sia da bande di contadini e briganti. Essi erano i filo-borbonici dell’armata della Santa Fede, sguinzagliati dal cardinale Ruffo (i famosi sanfedisti).
I contendenti si davano la caccia e tra una guerriglia e l’altra facevano piazza pulita di vite umane e bottini. I rivoluzionari francesi vietarono per legge il “suono a doppio delle campane”. La trasgressione sarebbe stata presa come “segnale di guerra” e, a quel punto, via all’arrembaggio: la città ribelle bruciata e rasa al suolo. Ad Altamura successe il finimondo – tramanda il Cardassi.
E Il 6 Maggio del 1799 arrivarono nelle vicinanze di Rutigliano. Dopo aver depredato anche la vicina Montrone (frazione dell’attuale Adelfia insieme a Canneto di Bari), in men che non si dica si appressarono alla nostra città per quella via. E quand’ancora le truppe erano ferme all’altezza della chiesa dei Cappuccini, sciaguratamente suonarono le campane a doppio. Corsero un bel rischio ma se la seppero sbrigare a meraviglia i rutiglianesi.
Effettivamente nessuno si sognava di aizzare il popolo alla resistenza, si era trattato di un equivoco: i rintocchi accompagnavano l’arciprete che portava la comunione a un moribondo. I francesi già si preparavano a sfruttare l’occasione propizia e gettarsi a capofitto nella repressione della provocazione. I rutiglianesi furono colti alla sprovvista ma non si lasciarono prendere dal panico e una delegazione di cittadini fu prestamente inviata in ambasciata dai soldati ormai alle porte della città.
Riuscimmo fortunatamente ad ottenere il cessate il fuoco dal comandante. Avevano già puntato i cannoni in direzione del centro abitato, quando credettero alla buona fede dei rutiglianesi e abbandonarono i posti di combattimento e le armi (due di questi cannoni rimasero a Rutigliano fino al 1860, poi trasferiti a Bari). Discesa l’altura dei Cappuccini, varcata la più vicina porta del paese, Porta Nuova, si sincerarono della ingenuità del prelato che li attendeva vicino alla chiesa madre, facendosi scudo con la Sacra Pisside fra le mani.
Fu così che decisero di rinunciare all’assalto e di alloggiare a Rutigliano per non si sa quanto. Erano forse in quattrocento. I più furono ospitati da privati cittadini, gli ufficiali nei palazzotti delle famiglie più facoltose nel borgo antico. Nottetempo furono accolti a palazzo Pappalepore, in prossimità di Porta Nuova, e la nobile famiglia dette una grande festa in loro onore, e tutti furono intrattenuti e allietati con canti e danze come era d’uso in quella casa signorile.
Due giorni dopo, l’8 Maggio 1799, fu ideato il geniale stratagemma, efficacissimo e degno del cavallo di Troia, che permise ai rutiglianesi di liberarsi una volta per tutte dei bellimbusti napoleonici. Attuarono la messinscena nelle campagne a 3 km dal centro urbano. Tutto avvenne sulla sommità del colle di S. Martino, nella vicinanze dell’omonima splendida masseria ubicata sul punto a maggiore altitudine del contado.
Lassù vennero sguinzagliati armenti di buoi dotati di campanacci fragorosi per simulare baccano. Molti contadini con mogli e figli furono invitati a soffiare nei tipici fischietti in terracotta con l’intento di fare schiamazzo. In più, fu dato fuoco a svariati covoni di paglia. Donde la “beffa dei falò” (i “pall d paggh” della canzone).
Una tale baraonda fu inevitabilmente avvertita in paese e i militari insospettiti si affacciarono a dare un’occhiata dall’alto dello svettante belvedere di palazzo Pappalepore. Se la bevvero molto ingenuamente vedendo in quelle mandrie e in quei contadini chiassosi le truppe di Sanfedisti che suonavano la carica e avanzavano per la rappresaglia (nella canzone si dice “paraev propr nu eserct armjt”, sembrava proprio un esercito armato). Fu così che dopo una toccata e fuga i francesi se la squagliarono da Rutigliano, uscendo da Porta Castello e dirigendosi lungo la direzione opposta a quella di S. Martino alla volta di Mola di Bari.
La scamparono bella i rutiglianesi, dopo i tristi saccheggi di Montrone e le uccisioni cruente che seguirono qualche giorno dopo a Mola. Ciò dimostra la fine sagacia dei rutiglianesi che si guardarono bene dal tenere sotto il proprio tetto quei razziatori stranieri ma sopratutto l’astuzia del tranello.
Curiosità
Interessante è notare come l’episodio sia stigmatizzato con originalità assoluta dall’espediente dei “fischietti”. Oltre che per i buoi e per i fasci di fieno infuocati, i francesi furono gabbati grazie ai manufatti d’argilla sibilanti prodotti a Rutigliano fin dal primo medioevo. Quella volta, oltre che propiziare fecondità e divertire i più piccoli, funsero da talismani scaccia-guai.
Dopo l’Unità d’Italia gli stessi fischietti conservarono la memoria di quest’evento fortunoso. Nessuno lo sa, ma i modelli delle divise di gala dei Regi Carabinieri (il copricapo specialmente) si ispirano alle uniformi dei soldati napoleonici. Non a caso, fra le figure più commercializzate e ricercate di fischietti, figurano proprio gli esemplari di carabinieri. Lo sbeffeggiamento è passato perciò dai francesi ai carabinieri senza soluzione di continuità proprio attraverso i variopinti cola-cola rutiglianesi dalla storia millenaria.
La Leggenda
Alla storia fa compagnia spesso la leggenda. In merito, si dice che nella fretta i francesi abbiano abbandonato proprio presso gli ospiti i lauti bottini racimolati nei precedenti saccheggi. Alcuni di essi sarebbero rimasti occultati anche nelle campagne fino a qualche decennio fa. I nonni a Rutigliano raccontano spesso un aneddoto intorno ad una presunta palla di pietra contenente una carrozza d’oro, presso la Madonna delle Grazie. Per alcuni si sarebbe trattato di un tesoro nascosto poi scoperto da un tale che da quel momento in poi fu soprannominato “trsor” (tesoro, con ascendenza non a caso francese da “trèsor”) a perenne memoria del ritrovamento.
Il giornalista e storico locale Gianni Capotorto racconta che solo una quarantina di anni fa giunsero a Rutigliano alcuni francesi alla ricerca di un fantomatico tesoro che i loro antenati dicevano di aver lasciato in una chiesetta rurale a Rutigliano durante la fuga. La cappella in questione è quella della Madonna della Stella nei cui paraggi i francesi non ritrovarono assolutamente nulla; con ogni evidenza qualcun altro aveva già dissepolto e goduto di quella piccola fortuna chissà quanti anni or sono.
”Fscern i frangeis”, fuggirono dunque i francesi e la scamparono bella i rutiglianesi, dopo i tristi saccheggi di Montrone e le uccisioni cruente che seguirono qualche giorno dopo sulla costa di Mola di Bari. Fu così che si conservarono intatte le fattezze della città medievale e soprattutto, come si ricorda nella chiusa della canzone, i suoi monumenti più rappresentativi: la maestosa torre normanna quadrata e bugnata fra le meglio conservante in tutta la provincia di Bari (34 m.) e la chiesa matrice (a torr e a chieis nel brano) risalente all’XI secolo, dedicata a S. Maria della Colonna e S.Nicola.
Dopo il successo dell’album “Canti e storie della mia terra” in cui si annoverano fra i cavalli di battaglia le gettonate “U Wascniedd” e la canzone di debutto “Sand’Anduaen” , Mirizio non s’è fermato più e continua instancabilmente a raggranellare a destra e a manca le memorie del passato. Un passato che dobbiamo convincerci a salvaguardare e strappare all’oblio. La civiltà contadina dei miti e non della storia, delle tradizioni e non delle ideologie la si fa rivivere oggigiorno essenzialmente attraverso l’esperienza musicale.
Un approccio più diretto e sensoriale con un mondo per certi versi estinto ma non del tutto cancellato dall’immaginario collettivo può riaffiorare quasi fedelmente da note antiche modulate da strumenti di un tempo. Quelle che tutt’oggi chiamiamo canzoni etnico - folkloristiche gradualmente si stanno affrancando dalla posizione di nicchia che ricoprivano fino a non molto tempo fa. Il boom delle canzone popolare salentina ha investito sostanzialmente l’Italia tutta che si accinge a rivalutare un patrimonio mai tramontato ma tutt’al più accantonato, surclassato, svilito del suo elevato valore storico-culturale e artistico.
La ritmicità incantante e indiavolante delle Tarante e delle Pizziche del leccese, del brindisino, del tarantino e ora pure del barese e del foggiano ha trascinato ormai vecchie e recenti generazioni di danzatori nelle balere estive e negli slarghi dei centri storici medievali durante le sagre d’inverno.
Filastrocche, aneddoti di una volta, leggende, usanze antiche costituiscono la materia prima delle canzoni popolari. E’ preoccupante che tutto ciò rievochi un passato che, pur non essendo remoto, giorno per giorno viene cancellato dalle moderne e smodate devastazioni culturali.
Le tradizioni cadute in disuso sono lì lì per scomparire una volta per sempre anche dal ricordo. Nella civiltà delle macchine e dei ritmi vertiginosi c’è sempre meno spazio per la “tradizione orale”, c’è sempre meno spazio per le ninna nanne modulate dalle nonne agli infanti, oggi sbattuti negli asili nido fra videogame e tivvù.
E’ anche per questo che urge un recupero, non dico sistematico, ma perlomeno ragionevole dello sterminato patrimonio orale dei nostri nonni di cui ancora per poco tempo disporremo. Nel nostro piccolo, salviamo il salvabile. Un giorno i posteri ci ringrazieranno e pontificheranno allora e, speriamo fino alla fine dei tempi, in rutiglianese stretto: “Uè ste buaen” (Che tu stia bene!).