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Liliana Segre al Parlamento Europeo: «Avanti, avanti, avanti»

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liliana-segtre-art teresa

 
La marcia della vita della farfalla gialla sul filo spinato

di Teresa Gallone

Apre confidando la sua emozione nel vedere «le bandiere colorate di tanti stati affratellati nel Parlamento Europeo, dove si parla, si discute e ci si guarda negli occhi». È Liliana Segre a parlare davanti alla platea degli eurodeputati, riuniti in una mini plenaria il 29 gennaio scorso.
Saluta i parlamentari inglesi «che ci stanno lasciando con grande dispiacere di tutti» prima di cominciare il suo personale racconto in occasione della Giornata della Memoria.

«Il 27 gennaio io avevo tredici anni ed ero operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union […] di colpo, dopo che avevamo sentito scoppi lontani, venne il comando immediato di cominciare quella che fu chiamata la Marcia della Morte». La liberazione non arriva subito per la Segre e per i suoi compagni di sventura: «io facevo parte di quel gruppo di più di cinquantamila prigionieri ancora in vita che era stato obbligato in quelle condizioni fisiche e psichiche a cominciare quella marcia che durò mesi e di cui si parla pochissimo».
Non è il compianto del dolore a riempire le sue parole ma la «forza della vita, che è straordinaria». Nella «marcia della vita» raccomanda di «non appoggiarsi a nessuno nella vita» ma di mettere «una gamba davanti all’altra sempre». Questo secondo Liliana Segre va «trasmesso ai giovani di oggi che sono mortificati dalla mancanza di lavoro e dai vizi che ricevono dai loro genitori molli».  

Continua raccontando che «c’era qualche cosa dentro di noi che ci diceva “avanti, avanti, avanti”» nonostante si fosse ritrovata alla «fine del mese di aprile del 1945», con il ricordo ormai flebile del 27 gennaio, in uno stato di prostrazione da cui nessuno ha potuto sollevarla, circondata dalla paura, un sentimento che non riempiva tanto le vittime, quanto chi le osservava, bloccato nel terrore di concedere aiuto.
Verte quindi sullo stato attuale delle cose, ricordando a gran voce che «dobbiamo combattere il razzismo strutturale, che c’è ancora. La gente mi chiede perché si parla ancora di antisemitismo. Perché c’è sempre stato, insito nell’animo dei poveri di spirito. Arrivano i momenti adatti ad esprimerlo, in cui è più facile guardare dall’altra parte».

Ritorna al suo racconto: «ero diventata una bambina invisibile. Per caso rimasi viva e, quando ritornai nella mia Milano dalle macerie ancora fumanti, incontrai le mie compagne di scuola che non mi avevano più visto dal 1938. Ero una ragazza ferita, una ragazza selvaggia che non sapeva più mangiare con la forchetta e il coltello, ero bulimica, ero anche disgustosa e criticata anche da coloro che mi volevano bene». Confida di sentire una «difficoltà psichica molto forte» nel continuare a parlare di questi argomenti definendo «quella ragazzina sola, ischeletrita» altro da se stessa, benché il suo dovere sia questo «fino alla morte».

Si rivolge ancora alle bandiere, alla fratellanza di popoli prima divisi in uno stato di «solitudine ancestrale, alla ricerca di una parola comune». Commuove la platea parlando dei suoi nipoti e del Parlamento Europeo come di «uno stesso incredibile miracolo per una che doveva morire».
Conclude ricordando «la bambina che disegnò la farfalla gialla sul filo spinato a Terezin» e  invita a fare «la stessa scelta, con responsabilità e coscienza, la scelta di essere sempre come quella farfalla che vola sui fili spinati».

 

 

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