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IL RACCONTO DI MIRIAM, SCAMPATA ALLA DEPORTAZIONE

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di Gianni Nicastro


La giornata della memoria alla primaria “Settanni” lunedì scorso si è svolta con la partecipazione di una donna, di una ebrea di Roma, Miriam Dell’Ariccia, che ha raccontato la storia della sua vita nel momento più terribile per l’Italia. Un coinvolgente excursus tra le leggi razziali, il 1943, l’Armistizio, i nazisti che da alleati diventano nemici, la persecuzione, la deportazione di oltre 1000 ebrei (di cui 200 bambini) del Ghetto ebraico di Roma, la fortuna di essere scampata a quella deportazione.

A presentarla, a una folta platea di genitori nell’Aula Magna della scuola, la dirigente Angela Melpignano. Si è affacciato anche l’assessore Gianvito Defilippis che ha salutato l’iniziativa. I coprotagonisti della serata sono stati gli alunni della “Settanni”, hanno allestito nel corridoio una mostra e preparato un e-book sulla Shoah, un bel lavoro multimediale che abbiamo visto proiettato su uno schermo. Il libro elettronico preparato dagli alunni comincia con un video, la toccante poesia-testimonianza di Primo Levi “Se questo è un uomo” qui magistralmente recitata.





Subito dopo ha preso la parola Miriam. Aveva due anni quando è scampata, con tutta la famiglia, alla deportazione degli ebrei del Ghetto di Roma messa in atto dai nazisti il 16 ottobre del 1943. Nel «luglio del 1938 -ha raccontato- esce il manifesto della razza, firmato da dieci intellettuali fascisti», che diventa legge qualche mese dopo. Quel manifesto dichiarava gli ebrei «cittadini inferiori e gli ebrei stranieri che vivevano in Italia dovevano lasciare il territorio, dovevano andar via». «Agli ebrei -ha continuato Miriam- era vietato fare ed avere tante cose: possedere terreni, svolgere attività di pubblico interesse, non potevano essere occupati nella pubblica amministrazione, non potevano frequentare le scuole (quindi i ragazzi venivano mandati via insieme agli insegnanti e i docenti a tutti i livelli). Era vietato agli ebrei avere una domestica, avere una radio, allevare piccioni. Era vietato iscriversi a una qualsiasi associazione, riunirsi in assemblee. Tutto ciò che era nella vita normale era vietato. Quello che si poteva fare era la scuola ebraica per ebrei».

Dopo l’armistizio le cose peggiorarono, i tedeschi, coadiuvati dai fascisti italiani, cominciarono a praticare l’orrore delle deportazioni. «Le persecuzioni in Italia sono persecuzioni nazi-fasciste» ha detto Miriam. «I fascisti hanno collaborato coi nazisti nella deportazione degli ebrei e purtroppo non solo degli ebrei. Va ricordato che nei campi di concentramento sono morti 6 milioni di ebrei, ma sono anche morti milioni di Rom, di oppositori al regime, sono morti gli omosessuali, gli handicappati, sono morti i diversi». Il giorno della memoria, ha precisato Miriam, non è solo il giorno in cui si ricorda lo sterminio degli ebrei, è il giorno della memoria di tutte le vittime della follia omicida nazista.

Ha continuato a raccontare. «Mio nonno era un rabbino e lavorava nella comunità ebraica, quindi era perfettamente a conoscenza delle cose che succedevano all’interno della comunità». «Il 23 settembre Kappler chiama il presidente della comunità ebraica e gli dice di consegnare, nel giro di 36 ore, cinquanta chili di oro al comando tedesco, altrimenti la minaccia era la deportazione nei campi di concentramento di 200 uomini. I cinquanta chili d’oro sono stati raccolti, dagli ebrei e da coloro che hanno dato il proprio contributo anche non ebrei, cittadini romani».

Ma i tedeschi non si accontentarono solo dell’oro, si fecero avere gli indirizzari di tutti gli ebrei e la comunità a quel punto comincia a capire che qualcosa di peggio e di tragico stava per succedere. In quel momento nessuno sapeva, tanto meno loro, dell’esistenza dei campi di concentramento e della fine che facevano le moltitudini di persone che vi finivano dentro. Una polacca, incontrata per caso, aveva informato il nonno di Miriam sui deportati.  «A quel punto mio nonno decide che rimanere a casa non era assolutamente sicuro, quindi telefona a mia madre e mio padre, dice loro di andare a casa sua e noi, il 29 settembre siamo andati a casa di mio nonno». Si nascosero in una cantina, e da lì sotto sentivano il passo pesante degli stivali dei tedeschi che andavano e venivano, di corsa, sulla via.

A questo punto del racconto Miriam ha parlato della persona che ha salvato lei, la sua famiglia e altri ebrei, si chiamava Teresa. «A 13 anni arrivò a Roma -intorno al 1925-26- in cerca di lavoro, veniva dalle Marche. Incontrò i miei nonni, che cercavano qualcuno che facesse compagnia alle mie zie che avevano la stessa sua età. Teresa, quindi, andò a lavorare da mia nonna che la trattò come una terza figlia e per lei quella divenne la sua famiglia. È stata a casa di mia nonna 16 anni, è cresciuta insieme a mia madre».

Con l’avvento delle leggi razziali, non potendo più rimanere in quella casa, Teresa dovette andar via, cercarsi un nuovo lavoro. Non interruppe mai i rapporti con la famiglia di Miriam i cui nonni, per lei, erano come un padre e una madre. Teresa a un certo punto conosce un ragazzo e si sposa in un paese a 26 chilometro da Roma, Albano Laziale. «La fortuna volle -ha continuato Miriam- che il 30 settembre Teresa fosse venuta a Roma a Trovare mia nonna», ma a casa non trova nessuno e viene a sapere che la famiglia era nascosta dai nonni per il pericolo che si correva a farsi vedere in giro. La donna li andò a trovare in quella cantina, li prese e se li portò a casa, nel suo paese, dove gestiva un forno.

«Noi siamo stati nascosti, sotto falso nome in casa sua dal 30 settembre del ’43 al 6 giugno del ’44 e in paese Teresa disse che eravamo profughi venuti dal Sud». A due anni a Miriam i genitori dovettero insegnare che non doveva chiamarsi più Miriam Dell’Ariccia, ma Memme Bevilatte. Sono rimasti lì rischiando in continuazione perché proprio in quel paese «c’era un insediamento nazista e i tedeschi quasi tutte le sere arrivavano al forno per prendere il pane, arrivavano ubriachi di birra, ogni tanto cercavano di sfondare la porta dell’appartamento dove stavamo. Teresa aveva organizzato una fuga nella campagna attraverso una porta che dava sul retro da cui potevamo scappare in caso di necessità. C’era anche un nascondiglio dietro l’armadio dove potevamo ripararci e un giorno i tedeschi si fermarono proprio davanti a quell’armadio e, per fortuna, poi se ne andarono».

C’è stato un momento in cui Miriam e la sua famiglia sono rimasti 20 giorni chiusi in una stanza «senza mai poter uscire e… io ho un flash, piccolissimo, uno dei tanti. Mi ricordo una sedia piccola piccola sulla quale mi mettevo seduta e rimanevo immobile, in silenzio per ore perché, dovendo far vedere che in quella casa non ci fosse nessuno, mi avevano inculcato il terrore, fatto capire che non potevo né parlare, né piangere, né ridere e giocare. E mi ricordo questa sediolina piccola fatta di legno e io seduta, forse a fissare il vuoto, non lo so, non so cosa riuscissi a pensare i quel momento. Io sono rimasta segnata da questa mia esperienza da bambina, perché dopo la guerra, e ancora oggi, una certa sirena mi fa venire i brividi, vedere degli stivali militari che marciano mi fa venire brutti pensieri. Io ho sognato i tedeschi per vent’anni, non posso vedere un film di guerra perché mi ci sento male».

Sono rimasti lì nascosti fino a che non è finita la guerra, durante la quale Teresa ha continuato a dare ospitalità e aiuto a chiunque passasse di lì. Il 6 giugno del ’44 arrivano a Roma i primi carri armati degli americani «e i tedeschi scappano» ha detto ancora Miriam. «Un’altra immagine che io ho è vedere la fila dei tedeschi che se ne vanno e scappano. Teresa raccontava di ragazzi tedeschi, alcuni di 17-18 anni, che buttavano via la propria divisa per paura di essere presi e fatti prigionieri e allora la gente del paese, a cui questi giovani facevano un po’ pena, davano loro vestiti da civili. Cosa impensabile, però è successo».

Gi alleati sono arrivati ad Albano il 6 dicembre e loro, finalmente, sono usciti allo scoperto, sulla strada, di nuovo liberi nel mondo con tutto il paese, sulla strada, a ballare e a contare per la gioia. Tra l’altro, ha aggiunto Miriam, tutto il paese sapeva sin dall’inizio che loro erano ebrei, ma nessuno aveva mai parlato, aveva fatto la spia, «tranne una persona». Nei libri del paese è stato trovato «che una persona aveva fatto la spia e che all’alba del 10 giugno, quindi quattro giorni dopo essere stati liberati, dovevamo essere fucilati tutti sulla pubblica piazza. Teresa e Pietro (il marito) per primi e poi noi».

Una storia terribile, dunque, ma allo stesso tempo fortunata. Teresa e Pietro, ha detto infine Miriam, sono stati designati dallo Stato di Israele “Giusti tra le nazioni”, grazie a loro, al loro coraggio, alla loro grande umanità e solidarietà, Miriam ha potuto raccontare al mondo la sua drammatica esperienza di giovane scampata ai campi di concentramento nazisti.

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