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METTI "THE KILLER" IN UNA SERATA TRA AMICI

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di Andrea Costanza


Le serate tra amici a suon di film non sono poi così rare. Ognuno propone la sua pellicola da vedere, per poi optare (di solito in maniera democratica) quella più allettante. La scelta, se ci fate caso, è dettata dalla fascinazione (irrazionale) derivata dal titolo, dalla trama e dal genere. Non molto tempo fa mi è capitata, appunto, una serata cinefila tra amici. Il problema è sempre lo stesso: la cernita del film da vedere. Un amico propone il suo: “Non si sevizia un paperino” di Lucio Fulci. Un thriller/b-movie all'italiana molto carino, ma la sua opzione non passa (per mia fortuna, perché l'avevo già visto).

Altri due amici sparano le loro preferenze, stavolta horror: “Il seme della follia” di John Carpenter e “Saw IV”. Vengono scartati tutt'e due, malgrado si sia tentato di mischiare impudicamente la cioccolata con la popò (è facile capire quale sia la popò). Arriva il mio turno. E propongo un film noir asiatico anni '80, del tutto (o quasi) sconosciuto al grande pubblico: “The Killer” di John Woo (ecco il titolo), classe 1989. Risultato: mi guardano assai stralunati. Come a dire: “Ma dai, che film è? Cos'è, una tamarrata tutta mitragliette e kung fu?” Confesso.

Pur di avallare la mia proposta, decido di arringare la torma per una quindicina di minuti, dando quasi l'impressione di imitare (in maniera pessima) l'orazione di John Quincy Adams presente nel film “Amistad”, consumata dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Pessima o meno, l'arringa porta i suoi frutti (avevo trasformato il bugigattolo del mio amico in un caseificio). Tiè, vediamo "The Killer".

Si tratta di un capolavoro. Una pietra miliare del cinema noir. La pellicola parte con una melodia malinconica, che va ad introdurre la notturnità cupa di Hong Kong, nella quale si ambienta l'intera trama. La storia di “The Killer”, targata da un John Woo non ancora “hollywoodiano” (perciò assai lodevole), si innesta in una chiesa cattolica sconsacrata. In questo posto regna la quiete, la serenità.

Il protagonista è un sicario, che si appresta a conseguire la sua ennesima uccisione ben lucrata. Aspetta la consegna dell'incarico seduto su una panca, proprio in quell'oasi di pace. Guarda il crocifisso, scuro in volto. Tuttavia sembra un killer anomalo, malinconico, forse tormentato dai sensi di colpa. Non sembra cattivo, eppure uccide. Strano. La sua figura dunque è carica di una valenza ossimorica: nella sua immorale condotta, si intravede un individuo intriso di purezza nelle sue movenze e nel suo abbigliamento. Sembra quasi possedere un suo senso dell'onore.

La pellicola parte con un colpo di scena: durante uno scontro a fuoco, il sicario ferisce accidentalmente una ragazza, rendendola cieca. Tormentato dal rimorso, decide di prendersene cura, accettando un nuovo (e ultimo) incarico. Vuole aiutarla, pagandole l'intervento chirurgico che potrebbe riconsegnarle la vista. Si innamora. Intanto, nel proseguo della storia, un poliziotto “ribelle” gli darà la caccia per poterlo arrestare; eppure, come per magia, a causa di una serie di circostanze, si ritroveranno assieme a battagliare per una causa nobile, animati da un virile sentimento di stima trascendentale, che sconfina i ruoli antitetici “criminale/poliziotto”.

L'amicizia virile, l'onore, la lealtà, la dignità: questi sono i temi preponderanti della pellicola. Nella quale si coglie una commistione di melodramma e violenza esasperata sapientemente orchestrata. Woo ricerca l'estetica nelle scene d'azione: le sparatorie sembrano sì eccessive, ma al contempo coreografate come se i protagonisti stessero danzando. Ma la violenza di Woo non è sterile, fine a se stessa, come capita di intravedere troppo spesso nei film occidentali; anzi, la violenza in questo caso è un mezzo attraverso il quale recuperare e rinsaldare quei valori cavallereschi oramai perduti, nell'intento ultimo di raggiungere la redenzione. Uno dei film più pessimisti e malinconici di sempre. Da vedere e rivedere.

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