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MIMI' SAFFI, IL PARTIGIANO DELL'ALBANIA

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“Kendoni vdiq”
(il cantante è morto)

Mimì Saffi rievoca brevemente la sua vita, gli anni difficili vissuti da valoroso combattente nella guerra d’ Albania  e il suo indimenticabile amico rutiglianese Francesco Cannone.
di Antonio Graziano Sorino

Chi non conosce Mimì Saffi? Ogni rutiglianese ha dei ricordi legati a lui, da sempre uomo dai molteplici impegni ed interessi: il suo negozio di fiori a Porta Nuova, la banda cittadina, la politica, il nostro Crocifisso. Ma di Mimì Saffi vorrei raccontare un’altra storia, una vecchia storia che anch’io ignoravo. Ho pensato di scriverla dopo averla ascoltata da lui stesso durante una manifestazione, la scorsa estate.

Domenico Saffi, per tutti Mimì, nasce a Rutigliano l’11 novembre 1923 da Andrea e Maria Avella. Subito dopo la scuola dell’obbligo, comincia a lavorare insieme al padre, commerciante di frutta prima e poi fioraio. Chiamato alle armi allo scoppio del II conflitto mondiale, in qualità di soldato di leva è aggregato ad un battaglione di fucilieri della brigata di fanteria “Arezzo”: i “Diavoli gialli”, così erano chiamati perché sulle mostrine dell’uniforme prevaleva il  colore giallo. La Brigata diverrà in seguito Divisione. Dopo un periodo di addestramento svolto nella vicina Monopoli, parte nel 1941 per l’Albania, ove rimarrà sino al 1945.

Alla notizia dell’armistizio dell’8 settembre 1943,  il suo battaglione sceglie insieme al suo comandante, il Ten.Col. Rossini, (siciliano, come Saffi tiene a sottolineare) di non arrendersi all’esercito tedesco e di continuare la lotta in montagna unendosi a quella che diverrà la brigata “Antonio Gramsci”. La brigata partigiana “Gramsci”, formata da ex-militari italiani provenienti dalle Divisioni “Arezzo” e “Firenze” e da popolazione albanese, opera sino alla completa liberazione dell’Albania alle dipendenze dell’esercito albanese di liberazione nazionale; la brigata è comandata da Mehmet Shehu, che succederà a Enver Hoxha alla guida dell’Albania dal 1954 al 1981.

Accade che italiani scelgono liberamente di combattere al fianco di albanesi, sotto il comando albanese, per liberare una terra non loro e della quale loro stessi sono stati anni prima invasori. E lo fanno eroicamente, come al solito equipaggiati ed armati male, senza rifornimenti, spinti dal cuore. Il primo combattimento della brigata e di Saffi si svolge a Durazzo, dove è acquartierato il grosso dell’esercito tedesco e albanese filo-nazista: il loro compito è sabotare, distruggendo depositi e strutture militari e ritirandosi subito dopo  sui monti. Saffi racconta che il comandante Shehu aveva saputo del passaggio di una colonna tedesca che trasportava armi e munizioni destinate alla guerra in Italia, in viaggio da Elbasan a Durazzo ed organizza la sua distruzione. Nel corso di un attacco l’obiettivo viene raggiunto e Saffi ancora oggi ricorda di quest’azione il rumore delle esplosioni e il sibilo delle schegge impazzite che vagavano dappertutto. Una forte detonazione a pochi passi da lui, lo copre interamente di terra; devono intervenire i compagni per liberarlo dai detriti. Racconta: ”un metro forse e, Viva l’Italia, sarei morto!”.

Al termine sono costretti a ripiegare sulla città di Tepelene, a sud dell’Albania. Con lui il compaesano ed amico Francesco Cannone, che per le sue virtù canterine e per assonanza veniva da tutti chiamato ”Kendon”, in lingua albanese il cantante. Al ritorno da un’azione Saffi, che era stato promosso dallo stesso Shehu Tenente dei volontari, chiede di Cannone, ferito in azione giorni addietro, ma la triste risposta è “Kendoni vdiq” (il cantante è morto); vede allora alcuni albanesi della brigata seppellire soldati italiani in una fossa comune, tra questi riconosce Francesco Cannone, avvolto nel suo pastrano grigioverde insanguinato.

Mille i ricordi di Saffi, le sofferenze della fame e del freddo, la fatica delle marce, i rischi delle incursioni notturne con il compito di far saltare le fortificazioni tedesche presenti sul territorio, muovendosi sempre come fantasmi, che attaccano e scompaiono.
Ricorda con i suoi compagni di avere addirittura “rubato” le offerte rituali in cibo e sigarette che gli albanesi depongono sulla tomba dei defunti nei giorni successivi al trapasso. Tutto questo fino al ’44 ed alla liberazione di Tirana, il passaggio più difficile della guerra, preludio alla liberazione di tutta l’Albania dalle truppe tedesche di occupazione. Ricorda la guerra in città, gli appostamenti agli angoli dei palazzi, il fuoco amico e nemico dei cecchini, le bombe per le strade, i morti, i feriti. Nel ’45 il rientro a casa; unico documento un foglio di congedo firmato dalla stesso Shehu, che Saffi custodisce gelosamente a casa.

In Albania non è più tornato, troppi ricordi! Nessuna medaglia, encomio, promozione: sul foglio matricolare dell’Esercito Italiano il suo grado è quello di Sergente di complemento. Da quei tempi eredita una vicinanza al Partito Comunista, al quale è iscritto dal 1943 (con una tessera albanese) e nel quale militerà per tanti anni. Saffi è anche presidente della sezione di Rutigliano dell’Associazione Nazionale combattenti e reduci e alla domanda: “Presidente, ma perché allora quella scelta?”, risponde con grande tranquillità: “abbiamo sempre agito nella convinzione di combattere per l’Italia, da militari italiani”.
In Albania tra pochi giorni, il 29 novembre sarà Festa Nazionale, la Festa della Liberazione, ed anche quest’anno saranno ricordate le gesta leggendarie della Brigata “Antonio Gramsci”, anche la nostra Brigata.

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