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Realizza senza titoli in Zona agricola, il comune ordina la demolizione il TAR conferma

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di Gianni Nicastro

Una stanza adibita a deposito agricolo, abusiva ma sanata alla fine degli anni 90, che cambia in “locale commerciale” e vede la costruzione di opere edilizie, muri e bagno costruiti direttamente sul confine, pavimentazione, porticato, recinzione e una serie di gazebo infissi per terra, una sorta di sala ricevimenti con giardino. Tutto realizzato “in assenza di titoli abilitativi”, senza permesso. Opere completamente abusive.

Il comune se ne accorge e, a settembre del 2019, emana una ordinanza di abbattimento e ripristino della destinazione agricola di quei suoli. Il proprietario impugna l’ordinanza al TAR Puglia, ne chiede la sospensione dell’efficacia e, nella fase cautelare, ritira la domanda di sospensione. I giudici rimandano il contenzioso alla discussione di merito.

L’udienza al TAR si è tenuta il 26 giugno scorso con sentenza pubblicata il 31 luglio successivo. In sostanza il proprietario ha sostenuto che tutte le opere realizzate rientrassero “nell’attività di edilizia libera” ma, secondo i giudici amministrativi, solo la pavimentazione poteva rientrare in una simile attività, tutto il resto, muri, copertura, gazebo…, sono opere edilizie realizzate senza titoli abilitativi. Il TAR ha dato, dunque, ragione al comune e alla sua ordinanza di abbattimento.

La sentenza così conclude: “P.Q.M. il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia (sezione terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, accoglie il ricorso nella parte in cui l’ordinanza n. 14, prot. n. 134, del 19 settembre 2019, ordina la rimozione della pavimentazione; respinge per il resto”. Insomma, si è salvata solo la pavimentazione, tutto “il resto”, copertura, bagno, muri, gazebo e recinzione, va abbattuto.

A questo punto il proprietario può impugnare la sentenza in questione al Consiglio di Stato con esito incerto dal momento che la stessa sentenza cita due pronunce proprio del Consiglio di stato.
Insomma, la vicenda è arrivata al dunque e, fermo restando l’inottemperanza ad oggi dell’ordinanza del 2019, l’esito finale dovrebbe essere scontato: l’acquisizione al patrimonio pubblico dell’area e il successivo abbattimento.

Vorrei far notare, in ultimo, una cosa interessante. Il proprietario, nel suo ricorso, a giustificazione di quanto realizzato, in  modo particolare dei gazebo infissi al pavimento, ha citato la delibera di consiglio comunale n. 53 del 20 settembre 2010, quella che ha dato l’interpretazione autentica del concetto di struttura in precario. Nonostante, di quella interpretazione, ne avesse citato un lungo passaggio, il TAR gli ha dato comunque torto. Per “«gazebo» -si legge nella sentenza- si intende, nella sua configurazione tipica, una struttura leggera, non aderente ad altro immobile, coperta nella parte superiore ed aperta ai lati, realizzata con una struttura portante in ferro battuto, in alluminio o in legno strutturale, talvolta chiuso ai lati da tende facilmente rimuovibili”. «Il glossario -continua la sentenza- di cui al decreto ministeriale 2 marzo 2018 comunque chiarisce che non necessita di autorizzazione il “Gazebo” che non sia stabilmente infisso al suolo e che presenti “limitate dimensioni”».

Si potrebbe dire che quella vecchia delibera interpretativa del concetto di strutture in precario, sia fuorviante rispetto a come la giurisprudenza interpreta lo stesso concetto ed espone chi la richiama al rischio di ordinanza di demolizione, come nel caso qui preso in considerazione.
Credo sia utile rimettere mani a quella delibera per adeguarla all’interpretazione che la giurisprudenza ha consolidato circa il concetto di struttura in precario, questo per meglio tutelare chiunque realizzi sulla base di una interpretazione non proprio efficace.

 

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